Sarò novecentesca ma credo che il punto del rinnovato, o forse ciclico, interesse per il linguaggio non debba essere una corretta, limpida rappresentazione della società nei significanti, che siano parole, serie tv o copertine di settimanali. O almeno non solo.
Leggendo “Il sessismo nella lingua italiana” che Alma Sabatini ha scritto nel 1987 si respira ancora quell’aria stantia da Prima Repubblica, con tante cravatte e il rumore dei tacchi che si sovrappone a quello delle macchine da scrivere. Sembrava che il futuro dovesse essere meno sessista e invece poi è arrivato Berlusconi. Uomo forte sì, come piacciono a noi, volitivo, spavaldo, guascone, familista ma non così forte da riuscire a plasmare l’intero popolo italiano (e uso il maschile non a caso).
Nonostante alla fine avesse proposto una via di mezzo tra una versione lombarda di Las Vegas (la cui traduzione in dialetto avrei voluto riportare per cui mi limiterò a menzionarla come la versione cadrèga di Las Vegas) e una versione altrettanto lombarda delle gated communities, gli Stati Uniti degli anni ‘80 italiani erano più per galli col Ciao che per dei top gun (che poi comunque si sono comprati i SUV). Una fantasia escapista che però non teneva conto della storia schiavista e razzista degli Stati Uniti e della popolazione afrodiscendente che portava letteralmente incisa nella pelle la prima di quelle Parole-che-ora-non-si-possono-più-dire. La N-word.
La dinamica è chiara, una parte della popolazione con un passato e un presente di discriminazione, abusi e violenze non vuole che la parte della popolazione responsabile di queste discriminazione, abusi e violenze usi una determinata parola perché è offensiva, e non ha altro uso se non quello di ricordare chi è che comanda.
La politica identitaria afroamericana ma anche dei nativi è stata anche una forma di coesione sociale in difesa dalla società bianca, anche perché c’era una storia in comune. La storia era quella, era collettiva, la storia ha forgiato l’identità.
Ma torniamo in Italia. La parte del testo di Sabatini che pochi anni fa ha iniziato a circolare come un tazebao clandestino era quella che recava ben chiara la dicitura “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana”. Raccomandazioni che venivano sì dallo Stato ma che non potevano essere leggi; non si legifera sul linguaggio, per cui rimanevano raccomandazioni, suggestioni, che però evidenziavano uno dei tanti problemi della politica istituzionale, cioè gli uomini. Perché ancora si poteva parlare di uomini, uomini veri, uomini responsabili che portano sulle spalle il gravoso peso della civiltà, uomini di lotta e di partito.
Uomini veri che hanno plasmato quel tipo di linguaggio oscuro che era già chiamato da tempo politichese, che doveva servire a irretire ma anche ammansire le masse elettrici.
Sempre nel 1987 Tullio De Mauro in “Com’è facile parlare difficile”, dava due dritte anzi offriva, con la succitata pubblicazione, svariate indicazioni per esprimersi come un verbale dei carabinieri. Un linguaggio che si voleva chiaro e oggettivo e con lo scopo di fornire genuina agevolazione alle varie indagini, denunce, esposti e tutte cose.
Considerando che una buona parte della popolazione italiana aveva e forse ha ancora come prima lingua il dialetto e l’italiano comunque dialettale come seconda e l’italiano scolastico forse come terza, il linguaggio della burocrazia poteva sembrare allo stesso tempo freddo e oscuro come un messale prima del Secondo Concilio ma anche caldo e rassicurante come un bicchiere di rosso un mattino d’inverno.
Nel femminismo prevalentemente romano che ha frequentato e costruito Sabatini non era ancora arrivato il momento della politica identitaria. Anche se si può leggere il coevo femminismo della differenza come anti-identitario, in termini di identità culturale, ma anzi essenzialista (non a caso molte femministe della differenza sono diventate TERF, ma non tutte le TERF vengono dal femminismo della differenza. Quelle che hanno altri percorsi in genere vengono da Twitter).
Nel mentre le sottoculture frocie, lesbiche e trans covavano e si rafforzavano nelle rivistine, nei collettivi, nelle saune e nei bagni pubblici, ma assolutamente non in pubblico.
Era ancora un tempo arcadico in cui si poteva dire tutto e dal dopoguerra si poteva fare tutto. Ed è in questa forma impersonale che si annidava il potere, la gerarchia, tanti piccoli pelati mediocri Zeus nascosti nelle nuvole.
Fino a che non molti anni dopo (cioè qualche anno fa), deregolamentato il mercato del lavoro, smantellato il welfare, l’Italia non più Italia (ma comunque le basi militari statunitensi e il Vaticano e l’umile San Marino stanno lì da svariati decenni quindi piano con il sovranismo) ma Italia-in-Europa-e-con-l-euro, e consolidata la prospettiva assimilazionista e omonormativa delle associazioni prima gay e poi tutte le altre, le uniche battaglie che si potevano portare avanti non erano per i mezzi di produzione ma per i mezzi di comunicazione (e il matrimonio egualitario).
Amo ripeterlo ma la società dello spettacolo ha vinto e noi, esseri umani, abbiamo perso, e quasi fossimo delle infottate con la PNL e con la magia bianca (anzi fuxia), abbiamo iniziato davvero a credere che cambiando le parole sarebbe cambiato il mondo. Se non ché, il resto del mondo continua a non saper né leggere né scrivere e la lingua del futuro non sarà sicuramente l’italiano (ma forse il mandarino o lo spanglish).
Per questo il rinnovato, o forse ciclico, interesse per il linguaggio dovrebbe concentrarsi sull’alfabetizzazione e sull’educazione di tutte, perché tutte sappiano capire e discutere di cosa c’è scritto in ogni tipo di verbale, nei contratti di lavoro, nei contratti delle utenze, nei permesso di soggiorno, nelle diagnosi specialistica che ci possono dire che siamo pazze in mille modi diversi e nemmeno ce ne accorgiamo.
[Illustrazione di Simone Pieri]