In Italia, ancor di più negli ultimi due anni, tutto ruota intorno al simbolo della famiglia. Perfino l’ISTAT, soprattutto su determinate indagini quali quelle sulla povertà, adotta come unità di misura la famiglia. Quali implicazioni ha considerare 1= famiglia? In Italia la famiglia (tradizionale) non è semplicemente un modello di comportamento, ma uno strumento di interpretazione dell’esperienza di vita.
Questo è il motivo per cui anche se nemmeno gli eterocis al governo hanno famiglie tradizionali (esempi sono Meloni, Salvini oppure Adinolfi), essa rimane la lente attraverso cui per loro è importante interpretare non solo la nostra società ma la nostra socialità. Il modo cioè, con cui si misura il successo, la stabilità, la progettualità e un sacco di altre cose, anche discutibili, come la filiazione durante il collasso climatico. Ci tengo a precisare che, pur non essendo propriamente tradizionali, Salvini e Adinolfi tengono fede al nucleo da cui la loro ideologia normativa deriva: la coppia obbligatoria, per citare Adrienne Rich. Ovvero la cornice interpretativa e oppressiva per cui la Norma si fonda su una coppia eterosessuale cisgender che vuole stare insieme in modo sessualmente esclusivo. O almeno così si dice.
Lo scrivo, oltre che per mie fissazioni, anche perché identificare Salvini, Meloni o Adinolfi come significato di di qualcosa di altro rispetto l’eteronorma più patriarcale penso sia lontano dal reale e pericoloso. Sono ipocriti, certo, ma simbolicamente perfetta espressione del patriarcato: il potere per sé prevede anche piccole eccezioni, purché conservi se stesso.
La coppia obbligatoria non ha a che fare con il romanticismo: l’esclusività sessuale – femminile, si intende – è un modo per tramandare beni e titoli (Vassallo, 2021) per la quale è necessario il controllo riproduttivo del corpo gestante (Manada de lobxs, 2014). Ma non solo, secondo la critica marxista femminista degli anni ‘60, la famiglia è l’istituzione attraverso cui non retribuire il lavoro di riproduzione sociale e scaricarlo addosso alle socializzate donne. Non stupisce che la famiglia sia il luogo per eccellenza del disagio, della repressione e della violenza. Sono state tutte famiglie ciseterosessuali quelle che ci hanno silenziato, ingiuriato, emarginato, menato, cacciato, estromesso. Pertanto abbiamo provato a riappropriarci del concetto di (s)famiglia, smantellandolo e decostruendolo.
Per le soggettività lgbtqia+, in particolare quelle queer e trans*, decostruire il concetto di famiglia e ripensare nuove reti di cura e impegno è stato necessario. Quando parliamo di famiglia queer, oppure di sfamiglia, non si intende una variante in salsa lgbtqia+ del costrutto sociale della famiglia: la dittatura romantica di una coppia esclusiva monogama gerarchicamente del tutto superiore a qualsiasi altro tipo di relazione che aspira ad avere prole in una casetta. Condivido la posizione elaboraborata dal Laboratorio Smaschieramenti in S/coppia, quando scrivono che decostruire la normatività obbligatoria della coppia non vuol dire per forza non essere monogami oppure condurre una vita solitaria, ma affermare al contrario che le nostre vite sono ricche di affetto, desiderio, piacere e responsabilità al di fuori di un regime ideologico e per questo le sfamiglie sono un atto profondamente politico.
Ripensandoci, la prima forma di altra intimità rilevante per me è stata quella con le coinquiline all’università e con J. con cui ho condiviso non solo la casa, ma la stanza. Più consapevole e politica è stata la convivenza con Hari, avvenuta da persone estranee. Una sera ci siamo ubriacat* a una festa, abbiamo dormito insieme su un materasso gonfiabile e, dopo una passeggiata e pianti a Circo Massimo, è venuta a vivere a casa mia. Eravamo in un momento di fragililità e avevamo bisogno di spezzare il lavoro riproduttivo, di cura e il tempo con un’altra persona: avevamo scelto l’altr*. In un bilocale vicino alla pedonale del Pigneto abbiamo condiviso pratiche di cura, di mutuo soccorso, di intimità profonda, affetto, ma anche di impegno. Ci ripenso leggendo Tenetevi il matrimonio, noi vogliamo la dote di Acquistapace, lavoro antologico elaborato a partire dall’esperienza già citata del Laboratorio Smaschieramenti, e mi viene in mente una gita ad Ostia ascoltando Chuck Berry. Tirava molto vento.
Hari è una delle persone parte della mia sfamiglia, anche se al momento non viviamo insieme. Vive a circa 500 metri e continuiamo a essere il punto di riferimento relazionale l’un* dell’altra. Se potessi, sarebbe suo il nome che darei in ospedale per entrare in sala operatoria. Non cito Leone perché penso che morirebbe di ansia a vedermi in barella, altrimenti anche il suo certo.
Le amicizie ricoprono per me un ruolo fondamentale nella mia idea di sfamiglia, dove non hanno un ruolo gerarchicamente subalterno a partner e con cui condivido una relazione anche profondamente romantica (sebbene Leone sia proprio mio fratello, ma questo merita uno scritto a sé).
Una forma relazionale potenzialmente queer, anche se talvolta sfalzate rispetto al concetto proprio di famiglia queer, sono le case condivise o, ancor meglio, le case condivise occupate trans-femministe. Un luogo accogliente dove prendersi e dare impegno e cura, dove si costruiscono relazioni fuori dal dogma binario della coppia tra diverse soggettività. In molte di queste abitazioni ci ritroviamo per feste, eventi, campegge della comunità e la casa si apre a noi con le sue relazioni.
E qui arriva un punto centrale per chi scrive: queste reti relazionari non prescindono dai corpi che le attraversano. Non ritengo che possa esistere una sfamiglia queer senza una pratica politica di posizione fuori dalla coppia obbligatoria eterosessuale, perché non esiste alternativa, grazia e possibilità per quella creatura dal genere cangiante.
E’ davvero possibile, in tutta onestà intellettuale, una famiglia queer che ne ripropone ruoli, nomi, visioni e che magari usufruisce anche dei privilegi dall’avere contrassegnati i documenti con generi considerati opposti come M o F? E’ possibile, in tutta onestà intellettuale, affermare di avere una famiglia queer ed essere una socializzata donna e un socializzato uomo e unirsi in un matrimonio civile? Non c’è atto politico queer di sovvertimento nel seguire ciò che la Norma ha disegnato per noi. Non esiste spazio di riappropriazione ma solo, forse, quello del rovesciamento.
Parlo specificatamente di queerness, perché ritengo che tante reti relazionali sovversive dell’eteronorma siano possibili anche tra persone eterocissessuali poiché la famiglia è un paradigma politico. In modi spesso non politicizzati e collettivizzati, ma esistono. Basti pensare alle nuove formazioni con separat3 e riassemblat3, relazioni non monogame etiche, genitori singoli, nonn3 e i numerosi incastri al di là dell’immaginazione che la vita – e una società più permessiva verso l’eterocis-esistenza – ha saputo generare. Formazioni a cui mancano parole e un linguaggio, poiché gli manca un’elaborazione politica forse, e che spesso le cercano nella queerness sussumendone parole e pratiche. Comprensibile – è bello avere un linguaggio condiviso -, ma comunque inopportuno: non possiamo fare il lavoro al posto vostro.
La coach relazionale e sessuale, Beatrice Gigliuto, spiega come queste siano definite nell’ambito degli studi relazionali come “nuove convenzioni”, dove queste hanno bisogno di distaccarsi dai ruoli di genere più tradizionali, dalla divisione dei compiti retaggio degli anni cinquanta che sta stretta sia alle donne che agli uomini nelle coppie eterosessuali, hanno bisogno di trovare percorsi differenti . “Le nuove dinamiche relazionali sono quindi una messa in discussione di una serie di concetti che non ci rappresentano più nelle identità che abbiamo come genitori senza figli, genitori separati o single, famiglie allargate, amici che scelgono la vita della cogenitorialità per scelta, famiglie omogenitoriali, non patriarcali, non monogame”, racconta Gigliuto.
Non basta che singole identità si dichiarino queer per giustificare la sussunzione della famiglia queer: perché queer è pratica politica. In questo articolo, come altrove, utilizzo il termine queer non nei suoi significati normalizzati, cioè come sinonimo di lgbtqia+ o come non-definizione, ma come posizionamento politico (Haraway, 1988; Queer Nation Manifesto, 1991) di sovvertimento del sistema etercissessuale. Non appare possibile smantellare il costrutto di famiglia con un’altra famiglia che prescinde la corporeità. Viviamo una guerra sociale combattuta sui corpi: in questo la famiglia è un sistema rigido di sorverglianza (Butler, 1990). Si evade dal regime di sorveglianza-famiglia innanzitutto col corpo, smettendo di riprodursi, mestruando o scegliere di non mestruare più o perdere solo poche gocce come una ferita aperta, abortendo, facendo sesso con più persone, modificandolo, non facendo sesso, affermandolo, scavando trincee e facendo esplodere costrutti.
La mia madre biologica conosce la mia madre drag: entrambe si chiamano Cristina. Così come mio fratello biologico conosce mio fratello di scelta, e passiamo tempo tutt* insieme dedicandoci spazio, cura, impegno. Stringo relazioni profonde con la sfamiglia del* partner e imparo ad amare loro insieme agli animali non umani che abbiamo la fortuna di avere con noi: non so se l’esperienza di ciascun* sia prettamente politica. Ma sicuramente è una pratica di cura, impegno e responsabilità tessuta ogni giorno fuori dai binari tracciati da quell’unità di misura che mi conta come 1=1.