In tutto il mondo, e quindi anche in Italia, è in corso da anni una “caccia all’omo”, come la definì nel suo libro dal titolo omonimo il giornalista Simone Alliva, per identificare in maniera molto efficace la moderna crociata contro le persone LGBTQIA+ che da un decennio almeno vede le coppie di donne o di uomini che hanno figl* e le persone trans* sempre più bersaglio delle forze politiche di destra e dei cosiddetti movimenti “per la vita”. La motivazione evidente è che due mamma, due papà, “un uomo che diventa donna”, “una donna che diventa uomo” rappresentano per loro la distruzione del paradigma del solo vero pensiero unico che ha sempre dominato in Italia: quello cattolico. Per fortuna quasi più nessun* teme di finire all’inferno, perciò l’unica soluzione rimasta ai pro-lifelli d’Italia è ricorrere al panpenalismo: un nuovo reato per ogni “problema”, laddove per problema il Governo attuale intende “presunto diritto” da negare a colpi di decreti (rave, migranti, proteste ambientaliste), proposte di legge contro la 194 (capacità giuridica del concepito, ascolto del battito) e per rendere la GPA reato universale, azioni delle Procure contro le coppie composte da due madri, solo per fare alcuni tragici esempi di questo primo anno dell’era Meloni.
Sul fronte dei diritti LGBTQIA+ a tenere banco sono state a lungo le famiglie arcobaleno, mentre si iniziava ad additare le persone trans* come il gender personificato. E così, una volta consumato il delitto perfetto contro le Famiglie Arcobaleno, sono diventate più aggressive le campagne mediatiche e le azioni contro le persone trans*: cartellonistica, inserzioni e petizioni contro chi – a detta loro – confonde le creature portando il gender a scuola; una proposta di legge a prima firma Pillon per bandire le persone trans* da tutti gli sport a tutti i livelli e in qualsiasi contesto; diffide contro le scuole che hanno adottato regolamenti per la cosiddetta carriera alias; fino ad arrivare agli ultimi giorni di gennaio, quando il Ministero della Salute – a seguito di un’interrogazione di Maurizio Gasparri basata sui “si dice” – ha inviato degli ispettori all’Ospedale Careggi di Firenze per indagare su eventuali irregolarità nei percorsi di affermazione di genere di bambin* e adolescenti gender variant, con particolare riguardo ai protocolli di somministrazione dei puberty blockers. Al momento in cui scrivo le indiscrezioni fin qui trapelate ci dicono di alcune presunte irregolarità tutte ancora da verificare riguardo ai percorsi psicologici preliminari previsti prima di iniziare a somministrare il farmaco a minori trans* prebubescenti. Ci ritornerò più avanti, cerchiamo intanto di capire perché la onlus catto-talebana, guidata da Jacopo Coghe, protettore delle serrande, e Maria Rachele Ruiu, già candidata di FDI, si è così fissata contro questo strumento di tutela. Per farlo bisogna partire, a stare strett*, ad almeno 10 anni fa.
Nel 2016 Josep Bergoglio, durante un incontro con religiosi e seminaristi a Tbilisi, disse, tra le altre cose, che “La teoria gender è una guerra mondiale contro il matrimonio”. Parole davvero progressiste (sic!) pronunciate a pochi mesi dall’approvazione in Italia della Legge 76/2016 che regola le unioni civili tra persone dello stesso sesso e le convivenze di fatto. Devono averlo preso in parola i pro-vita che, se nei giorni dispari lo contestano perché fa concessioni (quali?) alla comunità LGBTQIA+, nei giorni pari conducono una lotta senza quartiere proprio contro il gender, così spaventoso tanto da essere utilizzato da Bergoglio (quando era ancora vescovo in Argentina) per fomentare le folle (incluse le suore di clausura!) a scendere in piazza contro il matrimonio egualitario, che a detta sua avrebbe fatto sprofondare il Paese come Atlantide.
Nessun paese è sprofondato, eppure il gender continua ad aleggiare in Europa – ma non solo – come uno spettro che a qualcuno fa quasi più paura di quello del comunismo di Karl Marx.
In Italia le campagne della onlus cattolica si sono negli anni intensificate e la “nuova” ondata anti-gender riguarda le scuole e quindi le vite e i diritti delle persone più giovani.
Le affissioni, spesso rimosse perché contrarie al DL Infrastrutture 2021 che prevede “il divieto di pubblicità che proponga messaggi […] discriminatori con riferimento all’orientamento sessuale, all’identità di genere, alle abilità fisiche e psichiche”, ma anche le vele, recitano: “Basta confondere le identità dei bambini”. Nascevano come strumenti della campagna contro l’educazione sesso-affettiva nelle scuole ma si prestano ormai da qualche tempo anche alla propaganda contro l’introduzione del regolamento per la carriera alias nelle scuole, cioè una disposizione interna che ogni singolo istituto decide singolarmente se adottare o meno, e che permette alle persone che frequentano le scuole superiori (ma è prevista anche in qualche scuola elementare e media) di far utilizzare, a chi lo richiede, genere e nomi diversi da quelli assegnati alla nascita nei rapporti tra pari, con il corpo docente e con il personale, nei registri elettronici e in tutto ciò che avviene all’interno della scuola. Serve, in breve, a garantire il diritto allo studio delle persone trans*, che sono quelle più soggette ad abbandono scolastico, il ché in una reazione a catena le porta poi a essere meno scolarizzate e dunque penalizzate ed escluse dall’accesso al lavoro, oltre ad avere un forte impatto sulla socialità e quindi sulla salute mentale e fisica.
A dicembre 2022 ProVita & Famiglie Onlus – di cui è presidente Toni Brandi, un imprenditore del settore turistico legato a doppio filo con Forza Nuova come emerso da alcune inchieste giornalistiche – ha inviato 150 diffide alle scuole superiori italiane che avevano approvato la carriera alias. La risposta della comunità trans* non si è limitata a una serie di post sui social che in punta di diritto dimostravano l’assoluta legittimità dei regolamenti alias, ma sta soprattutto nella controdiffida inviata dall’associazione trans* romana Gender X che ha di fatto annullato l’azione pro-life e anche tranquillizzato le dirigenze scolastiche a proseguire in questa strada di civiltà. Ma gli animi catto-talebani non si sono placati e continuano a battere su questo tasto, portando tra gli altri “argomenti” quello che si tratti di una recente moda “degli arcobalenati” per confondere i bambini e le bambine.
Posto che la difesa del diritto allo studio in tutte le sue sfumature non è per nulla una moda recente, ma ha consentito a diverse categorie un tempo escluse di scolarizzarsi, va detto anche a chi fa finta di non saperlo che se è vero che che la carriera alias nelle scuole è arrivata (qui…) solo da pochi anni, in realtà è qualcosa di già sperimentato nelle Università Italiane da almeno un decennio e che si è evoluto nel tempo: in principio fu il doppio libretto previsto nel 2013 dall’Università di Padova e poi da altri atenei, fino alla famigerata carriera alias in vigore ormai in quasi tutte le Università pubbliche con regolamenti sempre meno machiavellici che prevedono semplicemente che la persona trans* con documenti non ancora rettificati al momento dell’immatricolazione faccia la richiesta che verrà gestita dalla segreteria nel rispetto della privacy della persona e senza allegare certificato medico con diagnosi di disforia di genere.
Come è arrivata la carriera alias nelle scuole superiori? Nulla di straordinario: le persone trans* non iniziano magicamente a esistere solo dopo la maggiore età, quindi era più che logico che iniziassero a rivendicare questa forma di tutela anche prima di diventare “grandi”, ricordando così oltretutto che, come cantava Mia Martini, “sono stata anch’io bambina”, stimolando una buona fetta di genitori non solo a non farsi prendere da brivido orrore raccapriccio, ma ad accompagnare le loro piccole creature in un percorso che resta tortuoso ma lo è un po’ di meno se c’è una comunità educante che le accoglie in tutta la loro meravigliosa interezza. Tra l’altro il paradosso creato dalla carriera alias è che in maniera volontaria e politica, non medicalizzata ma consapevole, le persone trans* stanno costringendo lo Stato a mettere davvero in pratica, nel rispetto della dignità della persona, una parte del percorso di affermazione di genere che era una volta imposta anche a scopo di scoraggiare a proseguire ǝ che veniva vissuta come una tortura: il real-life test, cioè un periodo (lungo, troppo) durante il quale la persona trans* doveva dimostrare di potersi meritare i trattamenti ormonali e chirurgici facendo una vita da travestì (con tutto il portato negativo che ancora ha nella nostra cultura etero cis binaria il travestitismo) per provare sulla propria pelle come si stava “nell’altro genere”. Peccato che ci si stava malissimo, perché insieme a quell’assurdo dovere di risultare credibile agli occhi della società cis etero patriarcale non era previsto anche il giusto diritto a non essere trattat* come mostr*, non c’era un patto sociale per cui ad azione A corrisponde B ossia: ok io “mi travesto” ma tu mi chiami Milo o Miranda. Le persona trans* venivano semplicemente mandate allo sbaraglio, con tutti i rischi che ne conseguono. Oggi siamo noi che diciamo no al limbo infinito per arrivare a dama (cioè a sentenza per la rettifica, per le operazioni, per gli ormoni) e che inventiamo percorsi e modalità nuove creando scompiglio, portando a dire che così non va bene proprio a chi diceva che si doveva fare così. Sarà appunto perché insieme al dovere ci abbiamo messo anche il piacere, ossia il diritto. Allo studio e a non essere oggetto di discriminazione proprio come prevede la Costituzione.
Dalle scuole alle Università alle fabbriche, come si diceva una volta, anche se il percorso è stato inverso perché ci sono state persone pioniere anche nel mondo del lavoro che si sono battute per il proprio diritto come singole all’interno delle aziende già dagli inizi degli anni 2000 fino a tempi più recenti, aprendo così la strada (lunghissima) che ha portato l’anno scorso alla ratifica dei primi CCNL che prevedono l’identità alias per chi lavora nella Pubblica Amministrazione, nella Sanità, nella Scuola, oltre al comparto Multiservizi che dovrebbe regolamentarla nella contrattazione di secondo livello in corso. Passare dalla contrattazione ad personam a quella collettiva ha messo le persone trans* che lavorano al riparo da possibili ripensamenti delle aziende che non erano in alcun modo vincolate a rispettare un accordo basato su una buona pratica invece che su un diritto sindacale: quello della tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.
Ci è voluta pazienza certosina per creare un combinato disposto tra normative UE, (mal) recepite dall’Italia, decreti, testi unici e quant’altro, ma un tassello è stato messo al suo posto, compreso quello del rischio di ritrovarsi senza lavoro perché trans*. Non abbiamo dimenticato Cloe Bianco che per noi non è solamente una storia triste ma una vertenza sindacale che nessun* ha voluto o saputo gestire. Così come, più di recente, siamo stat* col fiato sospeso per un’altra professoressa, Giovanna Cristina Vivinetto, che, dopo un procedimento durato 3 anni ,ha avuto ragione contro una scuola romana che – a detta del dirigente scolastico – l’aveva licenziata “per giusta causa” ǝ invece si trattava di transfobia.
Come è potuto succedere? Perché non esiste una legge che tuteli le persone trans* contro le discriminazioni sul lavoro, a differenza di quanto accade per l’orientamento sessuale, e quindi c’è stata un prova di forza della dirigenza che ha fatto i suoi giusti calcoli: non voglio “un trans” a scuola (ma allora perché l’hai assunta? Non ha mai nascosto di essere una donna trans!) e quindi la licenzio inventando fantomatiche inadempienze, perché tanto sono quasi sicuro che non farà ricorso per paura e comunque, anche se lo farà, staremo in ballo chissà quanto in tribunale e se anche il tribunale le darà ragione al massimo dovrò pagare gli stipendi non corrisposti senza alcuna sanzione ulteriore, avendo ottenuto comunque il mio scopo: aver accasato dalla mia scuola “un trans”. Ed è effettivamente così che è andata: Vivinetto è stata risarcita, la sentenza si sofferma pochissimo sul reale motivo del licenziamento, cioè la discriminazione in quanto trans*, e l’azienda perde non perché ha discriminato ma perché non ha ottemperato al contratto rispetto al principio della giusta causa.
Mentre scrivo il flusso dei pensieri viene interrotto spesso dal ritmo febbrile dei messaggi nelle chat di attivismo: dobbiamo trovare ancora altre energie per difendere le nostre vite trans* dall’ennesimo attacco strumentale nei confronti delle persone più piccole della nostra comunità, bambin* e adolescenti gender variant, delle loro famiglie e del personale dell’Ospedale Careggi di Firenze che le accompagna nel percorso di affermazione di genere. Come accennato all’inizio di questo pezzo, siamo sotto bombardamento istituzionale e mediatico: ispezioni, illazioni, interrogazioni parlamentari, talk televisivi piegati alla retorica pro-life in cui si paventano pericoli e mancanza di informazioni sui rischi – benefici connessi alla somministrazione della triptorelina, un bloccante della pubertà somministrato secondo criteri strettissimi stabiliti dal Comitato Nazionale di Bioetica, presieduto (ahinoi!) da Assuntina Morresi che è anche Vice Capo Gabinetto del Ministero della Famiglia, Natalità e Pari Opportunità, braccio destro di Eugenia Roccella, una garanzia!
Non stupisce quindi, nel ripasso matto e disperato delle carte che si sta facendo in questi giorni per sostenere ancora più efficacemente le persone più indifese della nostra comunità, di ritrovare in fondo al documento del Comitato Nazionale di Bioetica del 2018 – quello con cui si autorizzava l’utilizzo della triptorelina off-label (ossia al di fuori dell’impiego previsto originariamente per il farmaco), una postilla molto stizzita in cui Morresi – avversa alla decisione – porta a sostegno della sua tesi contraria nientemeno che un post di Arcilesbica in cui si paragonavano i percorsi di affermazione di genere alle cosiddette terapie di conversione: sostengono Gramolini & Danna, che non esistono bambin* gender variant, adolescenti trans+ ma che sono bambine lesbiche e bambini gay ai quali vengono imposte “terapie di conversione”, una pratica che dicono di aver purtroppo assaggiato.
Ora, non metto in dubbio che sia successo anche a loro, ma non posso accettare la menzogna che ai loro tempi siano state costrette a essere maschi, semmai saranno state forzate a essere donne etero ed è una violenza che conosco, da persona assegnata femmina alla nascita che per salvarsi in qualche modo scelse la via del lesbismo anche se non era la sua vera natura. Violenze che dunque non neghiamo, e che anzi combattiamo ancora oggi però proprio contro i pro-life amici di Arcilesbica che sono contrari a una legge che le metta al bando come già avvenuto in altri Paesi Europei: Germania, Francia, Grecia, Spagna, Malta, il Parlamento di Madrid, della Murcia, dell’Andalusia e di Aragona le hanno già vietate, mentre Belgio, Austria, Finlandia, Portogallo, Svizzera e UK hanno dichiarato che lo faranno. All’appello mancano solo pochi Stati, detti silenti, tra i quali purtroppo l’Italia.
Ma interessa forse questo ad Arcilesbica e al suo codazzo di parvenu? Assolutamente no, e continua la guerra contro le persone trans* raccogliendo firme contro la chiusura del Careggi. Ben 80… ancora meno delle 100 messe faticosamente insieme contro la GPA. Una strategia perdente, come fatto notare persino da Marina Terragni (RadFem Italia) che non ha firmato nessuna delle due affidando ai social le sue motivazioni: è inutile, perché nella guerra dei numeri perdiamo. E in effetti tra la lettera di Agedo (270 famiglie) e quella di Genderlens (circa 2mila firme da tutto il mondo) è una disfatta totale, che però non ci lascia per niente tranquill*.
In questo vuoto legislativo generale in tema di diritti LGBTQIA+, il vortice di contraddizioni creato da questa alleanza incredibile, tra provita/Arcilesbica/ Radfem e qualche gay alla ricerca continua di ri-posizionamenti personali, rischia di travolgere chiunque, tranne chi da posizioni privilegiate parla di pericoli mentre ci mette in pericolo e pare non voler capire che ci si mette a sua volta: è certo che, se e quando finiranno con noi, sarà un altro lo spauracchio da agitare per scopi elettorali. Se finiranno. Perché abbiamo attraversato secoli ma siamo ancora qui, siamo diventate persone adulte, alcune addirittura anziane, senza morire tutte ammazzate, nonostante la società ci dicesse, e ancora ci dica, che non siamo degne di questo mondo. E allora tocca proprio a noi esserci per le persone più piccole. Non posso pensare di arrendermi e di non stare con loro in questa ennesima battaglia, perché significherebbe lasciare ancora una volta da solo il piccolo me che non aveva nessuno dalla sua parte a dirgli che non era sbagliato. Ci prenderemo tutto: scuola, salute, lavoro, casa e pure la triptorelina e gli ormoni e gli interventi e i documenti, ǝ si farà l’amore ognuno come gli va, perché vinta questa partita il passo successivo sarà salutare con tutti gli onori la Legge 164/82, i protocolli patologizzanti e approvare, finalmente, la Legge che vogliamo.
[Foto di Alexander Grey e Aiden Craver]