AUT Magazine

Comunità trans nello sport: quando rendersi visibili è rivoluzione

di Aldo Mastellone
La situazione delle persone LGBTQIA+ nello sport agonistico. Intervista a Guglielmo Giannotta, Presidente di ACET, Associazione per la Cultura e l’Etica Transgenere.
ACET
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Se dovessimo fissare un valore che interseca l’ascissa delle persone LGBTQIA+ e l’ordinata del Crossfit potremmo dire che il 70% di sportivə frequentanti appartengono serenamente alla nostra comunità. Ma così non sembra essere nello sport “ufficiale”, quello agonistico delle serie A di tutte le discipline. Aldo Mastellone intervista Guglielmo Giannotta, Presidente di ACET, Associazione per la Cultura e l’Etica Transgenere, che ci racconta della drammatica situazione della nostra comunità nello sport che colpisce soprattutto sportivə transgender. 

Facciamo due rapidi calcoli insieme. Anzi, più che calcoli sono delle stime che ci aiutano ad arrivare ad un punto, un punto essenziale che non possiamo più permetterci di ignorare e relegare ai margini delle discussioni sui diritti delle persone LGBTQIA+.

Prendiamo un giro largo, abbiate fede. Partiamo dalla domanda delle domande. Quante sono le persone LGBTQIA+ nel mondo? Si possono contare? Nonostante la portata enorme della prima domanda, la risposta alla seconda invece penso di potervela dare con grande schiettezza e semplicità: No, non si possono contare. Perché? Perché così come non è possibile contare una cosa semplice, come ad esempio quante siano le persone che dormono sul fianco, per qualcosa di così ampio – che in ogni paese si inserisce a sua volta in una cornice socio-culturale e storica peculiare, e che in ogni persona ha una diversa connotazione e sfumatura, e che questa connotazione non è nemmeno necessariamente stabile nel tempo – ecco, converrete che non è possibile fare una “conta”.

Ma possiamo fare delle stime. Fare delle stime ci aiuta in tanti ambiti, dall’economia alla supply chain, e credo che possa essere utile adottare un approccio quantitativo anche in questo caso.  Sia Ipsos sia Statista, in due ricerche su un campione di una trentina di paesi, hanno rilevato che circa il 4% delle persone si identifica in qualche modo nella sigla LGBTQIA+ (senza entrare nel dettaglio della comunità specifica).

L’ISTAT* ci dice che circa il 66% della popolazione italiana pratica attività fisico-sportiva (2021). Questo vuol dire che è sensato ipotizzare che il 4% di quel 66% sarà la stima delle persone LGBTQIA+ in Italia che pratica sport, ovvero oltre 153.000 persone. 

Ho finito con i numeri. Ora vi chiedo un altro sforzo, ma di memoria. Così, su due piedi, quantə sportivə italianə LGBTQIA+ vi vengono in mente? Immagino uno o due nomi, ma giusto perché state leggendo Aut e quindi siete un pubblico sensibile al tema. Quantə sportivə LGBTQIA+ vi vengono in mente nel mondo? Se arrivate a 10 nomi siete statə bravə. Forse adesso vi viene in mente il nome di Jakub Jankto, il ragazzo ceco del Cagliari che a seguito della promozione della squadra in Serie A sarà il primo uomo apertamente gay nella Serie A di calcio italiana.

A fronte di 153.000 persone LGBTQIA+ che praticano sport in Italia è  davvero contro ogni logica che nella Serie A di calcio italiana (ma anche nella B e nella C1 e C2) ad oggi contiamo un solo uomo gay. La cultura machista nello sport italiano è così radiata che ricordiamo che della nostra comunità hanno fatto coming out tre donne in maniera visibile: la pallavolista Paola Egonu, la pugile Irma Testa e l’atleta Valentina Petrillo. Di uomini nello sport nostrano che hanno fatto coming out non ne abbiamo. Il Ministro dello Sport Abodi (ma voi lo sapevate che avevamo un Ministro dello Sport? Io no. Forse era meglio) ha dichiarato, in riferimento all’arrivo di Jankto in Serie A “Non faccio differenze di caratteristiche che riguardano la sfera delle scelte personali. Se devo essere altrettanto sincero non amo, in generale, le ostentazioni, ma le scelte individuali vanno rispettate per come vengono prese e per quelle che sono. Io mi fermo qui”. Bravo Ministro, si fermi che già così ne ha sparate un paio belle pesanti. Anche qualche sportivə del Bel Paese ci ha ricordato quanto l’omolebobitransfobia sia una realtà quotidiana, citiamo una per tuttə la sciatrice Sofia Goggia che nel 2022 dichiarò in un’interivista al Corriere della Sera: ”Gay nello sci maschile? Direi che non ci sono: devono gettarsi dalla Streif di Kitz.” per poi schierarsi contro le atlete trans nello sport.

Perché anche le invisibilità non sono tutte uguali e c’è chi ha il privilegio di esserlo per sua scelta, come le persone cisgender, e chi invece viene invisibilizzato coattamente, come lə atletə trans. Un uomo gay può decidere di non fare coming out per poter continuare nell’ombra la sua vita sportiva. Una scelta sofferta, ma una scelta. Un uomo trans o una donna trans non hanno questo privilegio: i loro documenti, specialmente nel nostro Paese, rappresentano ogni volta un coming out forzato e obbligato, se non un vero e proprio outing.

E non solo. Il dibattito sul loro diritto di partecipare alle competizioni sportive del genere in cui si identificano è accesissimo: chi si oppone al fatto che loro gareggino utilizzano goffe teorie di biologia. Il testosterone nel sangue offrirebbe alle atlete trans (strano che siano sempre le donne ad andarci di mezzo, eh?) delle prestazioni più alte rispetto a quelle delle atlete cisgender. Il punto è però che anche essere altə comporta avere prestazioni migliori nel basket, ma non mi sembra che ci sia un limite all’altezza che si possa avere, anzi, ricordo ancora quando al liceo i procuratori sportivi venivano nel mio liceo a obbligare lə spilungonə dell’istituto ad iscriversi a pallacanestro pur non avendo mai visto un cesto in vita loro per coltivarli nei cosiddetti “vivai”.

I corpi sono tutti diversi, se regoliamo quelle delle donne trans sulla base dei presunti vantaggi che il testosterone in adolescenza può aver dato loro (e anche qui ci sono più domande che risposte) perché non regoliamo allora quello di tuttə lə atletə?

Perché è impossibile, è una follia. Una follia che però se ha come scopo quello di escludere le persone trans viene elogiata da molte persone, anche apparentemente liberali e progressiste, anche all’interno della nostra stessa comunità. Purtroppo le persone trans sono le più discriminate nell’acronimo LGBTQIA+, sono sotto attacco continuo e costante da parte di chi non vuole accettare la loro esistenza perché dovrebbe di conseguenza accettare la fragilità del proprio modello di mondo, imposto con brutalità negli anni e che oggi inizia a scricchiolare da dentro. 

In questo scenario a tinte fosche, un raggio di sole è il progetto di ACET – Associazione per la Cultura e l’Etica Transgenere, nata a Milano nel 2020, che si occupa di tutela e implementazione dei diritti delle persone transgender, non binarie e di genere non conforme in Italia. Ho il piacere di intervistare Guglielmo Giannotta, il Presidente di ACET, che ha da poco fondato una squadra di calcio composta esclusivamente da persone trans. Un progetto che vuole combattere l’invisibilità imposta alle persone trans (o la visibilità “estorta”) con un modello di autodeterminazione, in uno degli sport più chiusi verso la comunità LGBTQIA+.

“Il progetto ACETEAM nasce qualche mese fa nell’aprile 2020. Ci contattò Open Milano Calcio, che stava organizzando un progetto sportivo intitolato “Te lo do io il Qatar” e che aveva l’obiettivo di creare un’esperienza calcistica continuativa che si fondasse sull’opposizione di tutti i punti critici presenti agli ultimi mondiali di calcio. “Te lo do il Qatar” era articolato in tre fasi: un torneo, un campionato e un’esibizione conclusiva di calcio a 11 con l’obiettivo specifico di creare una tifoseria. Il presidente di Open ci contattò per chiederci se alcuni soci di ACET avessero voglia di partecipare al torneo creando una squadra esclusivamente per quell’occasione. 7 dei nostri soci aderiscono e ci rechiamo al torneo: tutti si divertono, giochiamo diverse partite e andiamo a casa. Terminato il torneo annunciamo sui social di aver partecipato e ci arrivano messaggi da tutta Italia chiedendo se avessimo una squadra: noi non ce l’avevamo la squadra” mi racconta Guglielmo. “Ci arrivano 30 richieste in 3 giorni: nelle settimane successive lavoriamo con Open per strutturare il progetto, rendendolo sostenibile sia dal punto di vista etico sia sociale ed economico. Lavoriamo con UISP (l’ente di promozione sportiva, ndr) sulla carriera alias (ovvero la possibilità di utilizzare nella documentazione ufficiale il proprio nome di elezione e non quello presente nei documenti, ndr), settiamo la vision and mission e i parametri di ammissione nella squadra, prepariamo le divise, il materiale tecnico, il campo e ci presentiamo dai ragazzi comunicando la prima data di allenamento e il programma. Da allora ci troviamo ogni settimana per allenarci e abbiamo partecipato anche ad un campionato, il New Five. Ne è uscito fuori un progetto che ad oggi comprende 18 atleti, dedicato solo alle persone trans sulla base del principio di autodeterminazione delle stesse”.

Ma ACETEAM ha anche una componente sociale importante. “Ci siamo impegnati moltissimo per calmierare i prezzi” continua Guglielmo “Per cui ad oggi un anno di iscrizione costa 55 euro ad atleta. Il concetto di accessibilità economica era fondamentale per noi, per questo motivo è l’associazione che copre più del 90% dei costi del progetto. Da subito la squadra ha avuto una risonanza mediatica impressionante, anche perchè è l’unica squadra di questo tipo in Italia al momento e una delle poche in Europa. Speriamo che questa eco mediatica prorompente serva a sensibilizzare sempre più ASD di ogni disciplina sportiva rispetto alle nostre tematiche e all’accesso delle persone trans* nelle loro squadre”. 

Chiedo a Guglielmo di dirmi la sua sul dibattito circa l’ammissione delle persone Trans nelle competizioni sportive “Dal mio punto di vista il problema è dovuto dall’intersezione tra problemi di tipo ideologico e mancanza di ricerca sul tema. In Italia molte federazioni hanno istituito politiche che garantiscono l’accesso delle persone trans al mondo dello sport: il problema è che, essendo direttive, le singole realtà sono libere di non metterle in atto. Poi c’è il problema scientifico, sul quale manca una ricerca e che, dal mio punto di vista, in modo molto strumentale fa girare tutta la questione intorno alla quantità di ormone nel corpo, come se una persona con il testosterone a 9 alta un metro e sessanta per 50kg potesse spostare una persona con il testosterone a 2 alta un metro e ottanta per 90kg. L’accanimento ideologico è evidente soprattutto dal contenuto dei testi che limitano l’accesso per le persone trans* alle competizioni sportive; su tutti, mi viene da segnalare quello della world athletics, uscito di recente, che fa espressamente riferimento a limitazioni per le donne trans mentre tiene gli uomini trans in un binario logico differente che non prevede limitazioni.

Per fare un esempio pratico, si vorrebbe sostenere che, ad esempio, Valentina Petrillo sia andata a gareggiare con le donne perchè con gli uomini non avrebbe mai vinto, ignorando il fatto che Valentina Petrillo, quando con gli uomini ci gareggiava, ha vinto 12 titoli. Contemporaneamente però si vorrebbe sostenere che una donna trans non possa gareggiare con le donne perchè è più forte, mentre un uomo trans con le donne ci possa gareggiare, nonostante abbia un livello di testosterone molto più alto nel corpo. E’ proprio la contraddizione delle tesi riportate in questi testi che ne genera la sostanziale connotazione ideologica, non scientifica”.

Dalle parole di Guglielmo è evidente quanto la lotta per i diritti debba essere necessariamente intersezionale. Non possiamo non renderci conto dello stampo cis-patriarcale di molta dell’ideologia che discrimina le persone trans nello sport, ma che le discrimina in maniera più ampia in maniera sistemica in tutta la nostra società. Guglielmo mi dà ragione: “Io stesso, che sono sempre stato uno sportivo e ho sempre giocato a livello agonistico, da quando ho fatto coming out come persona trans ho perso in automatico l’accesso al mondo dello sport. Ho avuto palestre aperte 24/7 che mi hanno detto che non potevano tesserarmi perché erano piene, squadre che non “volevano problemi” nel capire in quale spogliatoio mettermi o nel cercare una soluzione per garantirmi l’accesso allo sport. Per me che ho sempre fatto sport fu un brutto colpo e solo con i documenti rettificati ho potuto riprendere un minimo di attività sportiva. Mi ricordo, quando ho ripreso, la rabbia che mi faceva aver perso tutto il lavoro fisico che avevo fatto negli anni per colpa di un sistema che non voleva prevedere la mia presenza. La squadra di ACET è sicuramente un progetto valoriale, ma trovo personalmente aberrante che per garantire il diritto allo sport delle persone trans la comunità trans si sia dovuta creare uno spazio autonomo perché gli spazi esistenti non ne vogliono sapere di noi”. Lo trovo tremendo anche io, per quello che vale. Ci servono spazi protetti per permettere ad alcune persone di esistere, ancora oggi, nel 2023.

Faccio un’ultima domanda a Guglielmo: quale è per te la strada per un mondo dove i corpi, le storie e le vite delle persone trans non siano più invisibili?

Dobbiamo essere visibili, ora più che mai. Se vogliamo che le persone smettano di parlare al posto nostro, quello spazio ce lo dobbiamo prendere e per farlo serve rendersi visibili.”

“Una delle cose che ho apprezzato di più dei ragazzi che hanno deciso di far parte della squadra è proprio questa. Al primo allenamento mi ricordo che feci un discorso che suonava più o meno così: “Guardate che giocare in questa squadra non sarà mai solo giocare a calcio, sarete visibili, tutti sapranno che siete trans; giocare qui porta con sé il peso della visibilità, valutate se ve la sentite.” Loro sapevano dal momento zero che sarebbero stati esposti, eppure hanno continuato a giocare, perchè questa cosa della visibilità l’hanno capita benissimo. Vogliono prendersi i loro spazi e far valere la propria voce e ad oggi, dopo mesi, posso dirvi che moltissime persone e squadre, tramite le loro voci e la loro rappresentanza, sono state sensibilizzate sui nostri temi”.

Non mi resta che dire “Forza ACETEAM”: toccherà che veda la mia prima partita di calcio.

 

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