Si dice che esistere è resistere. Questo motto sembra creato apposta per la comunità lgbtqia+ che ha sempre trovato nei valori della resistenza italiana contro il nazifascismo un’ispirazione e un sostegno, anche durante i Pride.
Per cinque anni, dal 2016 al 2020, ho avuto il piacere, con oneri e onori, di essere portavoce del Roma Pride, due da tesoriere e tre da presidente del Circolo Mario Mieli. Ogni Pride è a modo proprio simile e diverso da tutti gli altri, perché figlio del suo tempo, di chi lo organizza, di chi lo attraversa e di chi lo ricorda.
Ci sono poi alcuni Pride che fanno la storia. Il Pride del 2016, ad esempio, è stato uno spartiacque.
Dopo l’approvazione della legge sulle unioni civili arrivammo al Pride segnati dalle cicatrici di un durissimo dibattito politico e mediatico. Le nostre vite, le nostre storie, le nostre famiglie erano state colpite da un pretestuoso e ideologico attacco alla fine del quale avevamo riportato a casa una legge che, non solo non era ciò che continuavamo a chiedere da anni ma non era neppure quello che ci era stato promesso. All’esito di un terribile compromesso al ribasso a farne le spese era stata proprio la parte più vulnerabile della nostra comunità: i nostri figli e le nostre figlie.
Se con quella legge per la prima volta lo Stato ha preso atto della nostra esistenza andando a risolvere importanti questioni – come l’assistenza medica, le questioni ereditarie, la reversibilità della pensione -, allo stesso tempo da quel momento è stato scritto nero su bianco che noi non possiamo sposarci, non possiamo riconoscere i nostri figli, non non possiamo adottare.
Per noi è stato creato un apposito istituto, una sorta di apartheid normativo, senza neppure lo sforzo politico e culturale di immaginare un nome che – al pari di quanto accade nel matrimonio con i termini “coniugi” “marito” e “moglie” – racconti alla società il rapporto delle due persone unite civilmente.
La costruzione politica di quel Pride fu difficilissima. Il Circolo e le altre realtà del coordinamento Roma Pride avevano il compito di comunicare l’importanza di quel momento storico sottolineandone al contempo tutti i limiti, le frustrazioni, le rinunce e le conseguenze che quello stesso momento storico ci comportava. Noi non volevamo festeggiare, non volevamo ringraziare nessuno, noi non volevamo accontentarci. CHI NON SI ACCONTENTA LOTTA, lo slogan di quell’anno, fu l’inizio della nostra resistenza. Pochi mesi più tardi, con l’affaire IENE-UNAR, furono i nostri corpi, i nostri desideri, la nostra sessualità ad essere sotto attacco. Ci avevano “concesso” le unioni civili e noi invece che mostrare gratitudine, come sporcaccioni ci chiudevamo in saune e cruising! Non fu semplice, per noi del Mieli, per il Roma Pride del 2017 e per tutti i Pride che in quell’anno scelsero, non a caso, di parlare dei nostri corpi, spiegare che i diritti non si “concedono” ma si riconoscono, che il nostro è un movimento di liberazione sessuale, che è (anche) grazie a quei luoghi che la scintilla della rivoluzione, partita la notte dì Stonewall, è nel tempo deflagrata ovunque. Fu difficilissimo, anche all’interno della nostra stessa comunità, far capire che è grazie a persone che hanno vissuto e rivendicato con coraggio, libertà e autodeterminazione il proprio corpo e i propri desideri che oggi, a distanza di più di cinquant’anni, scendiamo nelle piazze non a elemosinare accettazione ma a rivendicare il nostro orgoglio. I nostri corpi furono al centro delle nostre rivendicazioni, delle nostre riflessioni e dei nostri eventi.
I Pride, del resto, sono sempre stati la nostra palestra di resistenza e questo ci fu ancora più chiaro nel corso della preparazione del successivo Pride del 2018. L’orizzonte era scuro, ci avvicinavamo alle politiche del 2018 con la piena consapevolezza di una destra a traino leghista sempre più forte, un centrosinistra sempre poco coraggioso sui nostri temi e con un’estrema diffidenza per tutto quello che stava nel mezzo. Noi non volevamo arretrare di un solo passo, volevamo di più, volevamo tutto. Abbiamo pensato di prendere lezioni da chi con successo, aveva sconfitto in passato la destra fascista, aveva fatto la Resistenza, quella con la “R” maiuscola, quella che abbiamo esportato in tutto il mondo. Coinvolgemmo, attraverso gli amici dell’ANPI, un gruppo di partigiane e partigiani, capeggiati dall’indimenticabile Tina Costa. In quel primo colloquio a casa sua nel tentativo un po’ timoroso di spiegare quanto per noi fosse importante la loro presenza al nostro Roma Pride non mi fece neppure finire di parlare:”Sebastiano, quando ho iniziato a fare la staffetta avevo 16 anni non sapevo tante cose e certo non potevo sapere una cosa di cui ora sono certa: stavamo lottando anche per voi, per la libertà di ognuno di voi”.
Fu un Pride grandioso e non solo per i grandi numeri ai quali ogni anno ci stavamo abituando sempre più, ma con le partigiane e i partigiani al nostro fianco era sempre più chiara la direzione del nostro cammino. Eravamo dalla parte giusta della Storia e non intendevamo fermarci. La Storia, la nostra Storia, fu invece al centro del Pride del 2019, nell’anno in cui celebravamo i 50 anni dai moti di Stonewall e i 25 anni dal primo Roma Pride del 1994, il primo Pride in Italia.
Fu un Pride sicuramente autocelebrativo ma anche necessario, una sorta di pit-stop per prendere atto della strada fatta in quei 50 anni ma, soprattutto, della strada da fare ancora insieme. Quello è stato anche un Pride di assordanti assenze, il primo senza Andrea, la nostra Karl du Pigné. La Karl era la favolosa voce che per anni aveva guidato i nostri Pride, la voce che non ha mai smesso di insultare i politici omofobi, la voce che aveva il potere di far ammutolire tutti quando era necessario. Se chiudo gli occhi, il primo ricordo che ho di quell’anno è proprio il boato dell’ultimo saluto che quel Pride, il suo Pride, le ha mandato. Al contrario, quello del 2020 è stato il Pride del silenzio, il NON-Pride. Abbiamo discusso a lungo sull’opportunità di scendere responsabilmente in piazza, anche quell’anno, pensando delle modalità alternative. Il Circolo e tutte le altre realtà del Coordinamento Roma Pride furono concordi nella scelta di non scendere in piazza. Fu una scelta sofferta ma motivata, per un verso, dalla responsabilità del non chiamare in piazza migliaia di persone in un momento così delicato per la salute e la vita di tutte noi e, per altro verso, dalla profonda convinzione che il Pride sia una manifestazione in cui la stessa modalità di scendere in piazza con i carri, la musica, i corpi, le bandiere, gli abbracci sia diventata ormai parte fondante delle nostre rivendicazioni. La nostra comunità ogni anno fa tantissime manifestazioni e presidi con importanti rivendicazioni ma quello che distingue il Pride da tutto il resto è, a mio parere, proprio quella peculiare modalità di prendersi la piazza al Pride che è diventata parte integrante della manifestazione. Noi resistiamo attraversando le nostre città con i nostri corpi, le nostre rivendicazioni, le nostre famiglie, i nostri alleati.Le musiche dei nostri carri fanno arrivare ovunque le nostre voci perché noi siamo i figli e le figlie di Sylvia Rivera, Marsha P. Johnson, Stormé DeLarverie e di tutte le madri della nostra comunità che a Stonewall hanno deciso di scrivere la parola “fine” alla storia di una società che, prevedendole sempre e solo come sconfitte, aveva deciso di relegarle ai margini.
Quella notte le ultime della società furono le prime a ribellarsi, hanno deciso di resistere, forse nemmeno immaginando che proprio quella notte la storia di tutti noi sarebbe cambiata per sempre. Si ribellarono contro il sistema e contro chi in quel sistema era chiamato a rappresentare un ordine e una disciplina incivile e ingiusta.
Noi oggi, dopo oltre 50 anni da quella notte, continuiamo ogni anno a scendere in piazza, perché il Paese che abbiamo è ancora troppo distante da quello che vogliamo. Non intendiamo arretrare di un solo passo. Noi vogliamo tutto. Noi continuiamo a resistere perché #CHINONSIACCONTENTALOTTA