AUT Magazine

Lo stigma della depressione

di Egizia Mondini e Alessandro Michetti
Intervista al Trio Medusa, ambassador della campagna “La Depressione non si sconfigge a parole”.
Trio Medusa

C’è qualcosa di terribile che caratterizza le malattie mentali, qualcosa che, oltre all’afflizione della patologia in sé, aggiunge un ulteriore carico di dolore e questo è il biasimo sociale, una forma subdola di diffidenza e incomprensione che tende a non attribuirle la giusta gravità. Una forma di rimozione, mista a ignoranza, che preferisce leggere nei suoi sintomo un “momento no”, semmai un po’ di stanchezza, insomma uno stato passeggero che può svanire con una serata al bar o una festa tra amici. Chi soffre di depressione spesso deve fare i conti con tutto questo, non ottenendo altro che maggiore disagio e frustrazione o, peggio ancora, arrivando a nascondere la propria patologia per una forma comprensibile ma ingiustificata di “vergogna”. 

La cosa certa è che di depressione se ne parla ancora troppo poco e, nonostante gli sforzi di divulgatori e malati che sui social condividono le loro competenze e le loro esperienze, si fa ancora fatica a far percepire la sua specifica gravità, almeno a un livello più popolare. 

Eppure la depressione sta assumendo sempre più la portata di una malattia sociale con percentuali allarmanti per gli adulti (circa il 6% della popolazione riferisce sintomi depressivi) ma soprattutto per i più giovani tra i quali ne soffrono 4 su 10. 

Le persone LGBTQIA+ poi sono maggiormente esposte al rischio di sviluppare disagio psicologico proprio a causa della loro appartenenza a gruppi sessuali minoritari. I motivi sono lampanti: pregiudizi, discriminazioni, limitazioni dei diritti e violenze di vario livello che insieme deteriorano la qualità di vita. 

Ne abbiamo parlato con il Trio Medusa, all’anagrafe Gabriele Corsi, Furio Corsetti e Giorgio Daviddi, gli inossidabili speaker di Radio Deejay, in onda tutte le mattine con uno dei programmi più ascoltati in Italia: Chiamate Roma Triuno Triuno dalle 7,30 alle 9. Gabriele Corsi, amico e supporter storico del Circolo Mario Mieli e delle nostre battaglie, è anche conduttore di “Don’t forget the lyrics” e  del “Contadino cerca moglie” sul Nove. 

Ma perché ne parliamo con loro? Perché sono da anni testimonial della campagna di sensibilizzazione “La Depressione non si sconfigge a parole” e, sebbene, giustamente, si guardino bene dall’elargire consigli su come gestire o affrontare la malattia, con l’intento di agevolare con la loro popolarità il più possibile la comunicazione e le informazioni, qualche cosa sulla depressione hanno da dirla. E noi gliel’abbiamo chiesta.

Parliamo di tabù: la depressione lo è? 

Non sappiamo se sia un tabù ma di sicuro è uno stigma sociale e per quanto ci riguarda abbiamo sempre cercato di far capire che non si può usare il termine depressione con leggerezza, usandolo come modo di dire: questo depotenzia la gravità della malattia facendola sembrare poco più che uno stato d’animo. 

In ambito artistico, depressione e creatività vengono spesso confusi. Come mai secondo voi? 

In effetti le due cose sono spesso abbinate. La malattia viene vista quasi con un’aura artistica, tipica del poeta un po’ maledetto, quando invece è una malattia seria, invalidante, che non affligge solo chi ne è colpito ma anche la cerchia di chi gli è accanto, parenti, amici, partner. 

Ma non sarà che questa depressione “è solo un po’ di stanchezza curabile con una partita di calcetto e una serata tra amici”? 

Questo approccio che spesso hanno gli “altri” era proprio il fulcro della campagna di sensibilizzazione sulla depressione alla quale abbiamo partecipato negli ultimi anni: “Ti vedo giù… andiamoci a fare una pizza”, “Che è quella tristezza? Un po’ di brio!”. A volte non è immediatamente comprensibile la differenza tra quello che può essere un “momento no” e la malattia della depressione, per questo ci richiede un’attenzione maggiore e un grado differente di empatia con chi ne può essere affetto. Un giorno no è un giorno, la depressione prosegue nel tempo rischiando a volte di peggiorare. 

Come dicevate prima, siete da anni ambassador della campagna di sensibilizzazione sulla depressione. Che idea vi siete fatti dello stato di consapevolezza in Italia? 

Pensiamo che si stia iniziando a percepirla con più serietà, attribuendole il giusto peso e la giusta gravità, anche perché ricordiamoci che è scatenata da fattori non sempre definiti, a volte anche ereditari e che può colpire chiunque. E soprattutto è importante che si inizi a non attribuire al malato una sorta di “colpa” ravvisata nella sua incapacità (letta come scarsa volontà) di “tirarsene fuori”. 

Sembra incredibile, ma nel 2023 ci sono ancora tantissimi che soffrono di depressione per il peso della discriminazione rispetto alla propria sessualità o identità di genere. E, nonostante oggi parlare delle tematiche lgbtqia+ sia “sdoganato”, ancora molti della comunità cadono nella depressione per la loro condizione. Cosa non va quindi a livello mediatico? 

Bella domanda, per noi che facciamo comunicazione forse in questo abbiamo un po’ fallito. Il problema è che spesso pensiamo che se una cosa non ti colpisce allora non ti riguarda e poni una distanza, e questo vale anche per le discriminazioni che mettiamo in atto con le persone affette da altre disabilità, fisiche o mentali, trincerandoci dietro un “i problemi sono altri”, ma sappiamo che non è così. Chi vive sulla propria pelle gli stigma, i tabù, la discriminazione, sa benissimo invece che parlarne è vita, è progresso e miglioramento, si creano protocolli, maggiori tutele, si realizzano azioni concrete, ed è da qui che si valuta il grado di civiltà di un paese.

Cosa secondo voi non si dice mai abbastanza di questa malattia? 

Non si dice mai abbastanza proprio questo: che è una malattia. Rimane sempre un mistero il perché ci sia distinzione tra salute fisica e mentale, di come sia accettato da tutti rivolgersi a un dottore per una frattura ma ci si sente a volte giudicati se invece si “confessa” di avere bisogno di cure mentali. 

Se hai tutto non puoi essere depresso. Anche questo è un tabù? 

È esattamente così, sembra quasi che se hai una famiglia, dei figli, un buon lavoro, tu non possa permetterti di essere depresso e questa è una concezione che non avresti mai per una malattia fisica degenerativa.

Da quando ve ne occupate, c’è qualche storia che vi ha colpito particolarmente? 

Abbiamo sentito tante testimonianze di persone affette da depressione che dicevano di non farcela più come prima, soprattutto la difficoltà di relazionarsi con le emozioni e con le persone a cui vuoi bene perché fatichi ad “accenderti”, a vivere momenti speciali come durante le feste, occasioni nelle quali queste persone si sentono paradossalmente più sole. Quindi, parliamone, affrontiamo la cosa e non vergogniamoci. Noi proviamo a farlo. 

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