“Se aspetto che sia qualcun altro a convalidare la mia esistenza, significa che mi sto privando di me stessa”.
Zanele Muholi
Imprevisto – Una delle carte del Monopoli che ho sempre temuto maggiormente, in quelle poche volte che ho preso parte al gioco. E se le regole del gioco e quelle della vita reale non fossero così diverse le une dalle altre? Spese non preventivate, perdi la casa, prendi una multa, vai in prigione senza passare dal via, torna al punto di partenza…
E se invece l’imprevisto fossi proprio tu? Sì, tu. Con la tua identità e le caratteristiche che ti definiscono.
Viviamo in una società che possiede e si basa su determinati tipi di norme, alcune più rigide ed evidenti, altre più sottintese e striscianti, che molto spesso finiamo per interiorizzare senza nemmeno rendercene pienamente conto. L’etero-cisnormatività rappresenta certamente il concetto e l’esempio più conosciuto all’interno della comunità LGBTQIA+: un paradigma sociale basato sul presupposto che l’eterosessualità sia l’unico orientamento sessuale corretto e auspicabile e stessa cosa l’essere cisgender (1), per quanto riguarda l’identità di genere. È anche a partire da questo tipo di normatività che ha origine l’omo-lesbo-bi-transfobia che ogni membro della comunità ha sperimentato in qualche forma almeno una volta nella vita.
Ci sono però situazioni in cui diversi assi di oppressione si sovrappongono tra loro (ciò che sta alla base del concetto di intersezionalità coniato da Crenshaw), andando a creare specifici tipi di discriminazioni e situazioni complesse: è il caso, per esempio, delle persone queer razzializzate e religiose. Quest’ultime non solo possono sperimentare discriminazioni legate all’orientamento sessuale, identità di genere, etnia e appartenenza religiosa nella società, ma spesso non sono al sicuro nemmeno in ambienti LGBTQIA+ che si professano safe. Le esperienze delle persone BIPOC (Black, Indigenous, People of color) e diverse ricerche e dati statistici parlano chiaro: il razzismo è una delle discriminazioni più frequenti e forti all’interno della comunità LGBTQIA+, un elefante nella stanza che non può più essere ignorato. Razzismo che non di rado risulta collegato a sentimenti anti-religiosi che vanno a colpire le persone LGBTQIA+ credenti o che abbracciano forme di spiritualità.
Le persone queer, razzializzate e credenti (tutte categorie di cui io stesso faccio parte) si ritrovano così a vivere costantemente tra l’incudine e il martello, situazione che conduce a livelli maggiori di minority stress e vulnerabilità rispetto al resto della popolazione.
In Italia, così come nell’intera Europa occidentale, viviamo e cresciamo immersi in una mentalità imperialista e neocoloniale talmente radicata da essere talvolta difficile da riconoscere, a meno che qualcuno non ce lo faccia notare. Come spiegato da Agar Omar in un suo articolo per Colory (2), «l’imperialismo è la mentalità e l’approccio che si cela dietro l’espansione e il dominio coloniale». La nazione occupante non prende il pieno controllo politico ed economico dello stato occupato, ma ne diventa il punto di riferimento per gli sviluppi culturali ed economici. Ed è proprio questo imperialismo culturale, tra le altre cose, a rendere difficile la vita delle persone razzializzate e queer (o in generale facenti parte di più categorie marginalizzate).
È molto radicata, per esempio, la convinzione che non si possa essere contemporaneamente una persona queer e credente, che essere religiosi significhi autoimporsi un’oppressione. Ci sono alcune questioni che però è bene tenere a mente.
Si tende spesso a confondere e unire due piani che sono molto diversi e che possono arrivare ad essere anche molto distanti tra loro: la fede in sé e l’uso che se ne fa, e le istituzioni che la rappresentano. Sono infatti quest’ultime ad aver agito, nel corso della storia, persecuzioni e discriminazioni ai danni delle comunità LGBTQIA+, ma assimilarle sempre e comunque alla fede in sé è sbagliato e molto dannoso, poiché non è quest’ultima a creare simili problemi, ma l’uso distorto che ne viene fatto per l’esercizio del potere nelle sue diverse forme. Da diverso tempo, in Occidente, le persone religiose vengono svilite e propagandate come primitive solo per il fatto di esserlo. E se questa può sembrare una questione di poco conto, ricordiamoci nel corso della storia, Stati e autorità varie hanno giustificato la propria violenza verso popoli e categorie di persone proprio con la retorica della lotta al primitivismo e un’idea di “civilizzazione” che altro non ha significato se non l’imposizione di un unico modello culturale, descritto e inteso come superiore.
Pretendere l’ateismo infatti, significa non solo presupporre un unico modello “più giusto”, ma ha come conseguenza quella di annullare parte dell’identità e della storia di una persona che non può essere slegata da quell’elemento (a meno che non sia la persona in questione a decidere) che rappresenta parte integrante della sua vita e del suo Sé. L’altra conseguenza è quella di andare ad annullare e appiattire su un unico modello le differenze culturali e i vari modi di produrre cultura e visioni queer.
Dall’Africa all’Asia, fino alle Americhe, in diverse culture le sessualità che andavano oltre il dimorfismo di genere erano oggetto di apprezzamento, se non addirittura auspicate, e le identità che oggi definiremmo come non binarie erano tenute in grande considerazione, tanto da rivestire anche importanti cariche religiose. L’omo-lesbo-bi-transfobia, la criminalizzazione e le persecuzioni a cui assistiamo oggi sono un drammatico lascito dell’eredità coloniale. Teniamo a mente che nei contesti pre-coloniali in Africa, in Asia e nelle Americhe il genere stesso era percepito come un’imposizione dei coloni. La filosofa Maria Lugones ha proposto il concetto di colonialità del genere, proprio per parlare del fatto che sia il sistema binario uomo-donna (con la conseguente eterocisnormatività) che la classificazione razziale dei corpi siano stati sviluppati dagli europei durante l’espansione coloniale.
Molti contesti che dovrebbero rappresentare delle zone safe non possiedono ancora un livello di consapevolezza e di decostruzione decoloniale che permetta di rendere queste realtà davvero sicure per tuttə, ma solo per uno specifico tipo di identità, rinunciando di fatto anche a contributi preziosi.
Ci si ritrova così a subire discriminazioni multiple per componenti della propria identità che non possono essere slegate l’una dall’altra, in quanto sono parti integranti di noi, senza le quali non saremmo lə stessə. Non si è solo emarginatə in quanto queer, ma in quanto queer e razzializzatə (neri, arabi, asiatici, latini, ogni gruppo ha le proprie specificità anche nelle discriminazioni, feticizzazioni e stereotipi a cui è soggetto), in quanto queer e religiosə, queer e neurodivergentə/disabilə e molte altre possibili combinazioni. Trovare dei luoghi davvero safe, in cui poter esprimere liberamente la propria identità con tutte le sue intersezioni, diventa molto difficile, contribuendo ad alimentare quel senso di solitudine e isolamento che moltə di noi si portano dietro, imprevisti di una società che non contempla esistenze e vissuti come i nostri. Strettə nella sensazione di essere sempre “troppo” o “troppo poco”, mentre assistiamo contemporaneamente a parti della nostra identità strumentalizzate e usate come vere e proprie armi per giustificare discriminazioni, o peggio ancora, genocidi, come sta accadendo per quello in Palestina.
Noi identità impreviste combattiamo contro sistemi di oppressione che sono interconnessi e, come scritto anche nel manifesto da parte di persone queer in Palestina3, «i nostri sogni di autonomia, comunità e liberazione sono intrinsecamente legati al nostro desiderio di autodeterminazione». Imporci di rinunciare a parti della nostra identità e cultura per essere assimilabili e più tollerabili non è un atteggiamento tanto diverso da quello portato avanti da persone e realtà queerfobiche.
Non abbiamo interesse ad essere il token esibito per mostrare quanto siamo “civili”, se l’idea di civiltà si fonda e regge su altre oppressioni. I diritti che si rivendicano durante i Pride, se sono davvero diritti e non solo privilegi riservati alla parte bianca della popolazione, sono universali e in quanto tali validi per ogni soggettività. Le lotte queer non possono essere separate dall’antirazzismo e dal pensiero decoloniale, perché quest’ultimi ne sono parte integrante, come riportato anche nel Manifesto di Queer Nation4: «essere queer significa combattere l’oppressione quotidianamente: l’omofobia, il razzismo, la misoginia, il bigottismo religioso degli ipocriti (diverso dalla fede in sé, n.d.a.) e l’odio di sé (ci è stato insegnato molto bene a odiarci). Essere queer significa condurre vite diverse: niente a che vedere con il mainstream, il profitto, il patriottismo, il patriarcato o l’essere assimilatə. Niente a che vedere con il privilegio ed elitarismo».
Gli imprevisti ci possono tenere bloccatə su di una casella. Ma è proprio dagli imprevisti che possono nascere anche nuove possibilità. Cosicché nessunə debba più stare fermə un turno, anzi, due.
“Non sono le nostre differenze a dividerci. È la nostra incapacità di riconoscere, accettare e celebrare queste differenze”.
Audre Lorde
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1- Persona la cui identità di genere coincide con il sesso/genere assegnato alla nascita;
2- https://colorycommunity.it/quello-che-a-lezione-di-storia-non-ci-hanno-insegnato-la-colonizzazione-avviene-ancora- oggi/
3- https://queersinpalestine.noblogs.org/italiano/
4- www.historyisaweapon.com/defcon1/queernation.html