Il Circolo Mario Mieli prima di essere il “Mieli”, è stato MUOR e ancora dopo AMOR, acronimi singolari che racchiudevano i germogli di un attivismo che sa di anni ‘80, entusiasmo e urgenza esistenziale.
Sono passati ben 40 anni. Difficile rappresentare ad una generazione giovane le condizioni storiche degli inizi degli anni ’80, ma ci provo.
Oggi è la generazione dei social; la nostra quella del passaparola. Oggi quella di Instagram, delle mail, delle call; la nostra quella dei comunicati stampa consegnati a mano, sempre lo stesso itinerario: l’Unità e Paese Sera a via dei Taurini, Repubblica a Piazza Indipendenza, il Messaggero a via del Tritone, il Manifesto e il Corriere della Sera a via Tomacelli, per chiudere con Il Tempo a Piazza Colonna.
Purtroppo è un terribile fatto di sangue quello che rimette in moto il movimento romano agli inizi degli anni ’80. Salvatore Pappalardo, un giovane operaio siciliano di soli 36 anni, residente a Torino, di passaggio a Roma per qualche giorno di vacanza, venne selvaggiamente e barbaramente ucciso con i bastoni della staccionata a Monte Caprino nella notte tra il 23 e il 24 aprile del 1982. Salvatore fu ucciso perché omosessuale; perché si moriva e si muore ancora oggi solo perché si è omosessuale o transessuale. E dopo 40 anni, l’Italia non ha ancora una legge contro l’omotransofobia. Che vergogna!
Questo brutale omicidio scosse le coscienze omosessuali, romane e nazionali. E segnò da subito anche il mio impegno nel movimento. Le reazioni furono immediate e riuscimmo a organizzare in breve tempo una emozionante manifestazione nazionale. C’erano proprio tutti; fu una trionfo di striscioni e di slogan, che sconvolse la città. Mille persone, una folla per il 1982, tra cui molti esponenti e militanti dei partiti della sinistra, ma soprattutto tantissimi omosessuali che portavano in piazza il loro dolore e la loro rabbia, ma anche, per la prima volta, la loro identità e le loro rivendicazioni. Grande la commozione alla fiaccolata che chiuse la manifestazione a Monte Caprino. Il sostegno delle Istituzioni e della politica ci convinse ad aprire il dialogo, per incalzare i partiti sull’attenzione alla condizione omosessuale e transessuale e venne rinnovata al Comune la richiesta di un Centro Polivalente di Cultura omosessuale. Quel “sì” alla nostra richiesta pronunciato con enfasi solenne dal Sindaco Vetere alla Sala Borromini provocò in tutt* noi una incontenibile emozione, leggibile chiaramente nei nostri occhi umidi. Riuscimmo a vedere nuove prospettive, un luogo NOSTRO riconosciuto, anche se dovemmo aspettare molti anni.
Ci chiamammo Movimento Unitario omosessuale romano, MUOR. Ma non apparve bene augurante e si trasformò in CUOR, Coordinamento unitario omosessuale romano. Unitario fu un elemento prezioso. Il movimento era impegnato in un fermento rivoluzionario di cambiamento culturale. Un segnale incoraggiante fu la nascita della rivista Babilonia, e la ormai famosa “presa del Cassero” di Bologna, dove il femminile fu protagonista, e dove accorremmo gioiose e festanti da tutta Italia. A Roma vennero celebrate le tre giornate dell’orgoglio omosessuale con il patrocinio e il contributo del Comune di Roma. Via via nacque l’esigenza di essere riconosciuti giuridicamente. Il dibattito fu animato e appassionante sulla scelta del nome da dare alla nascente associazione. Mi piace ricordare Ugo Bonessi che subito fece il nome di Mario Mieli, conosciuto e amato da tutti, che si era suicidato qualche mese prima. Sicuramente, la lettura di “Elementi di critica Omosessuale”, l’affettuosa ammirazione e condivisione del suo provocatorio impegno politico, l’originalità del personaggio, convinsero tutti. Ed è così che nel maggio del 1983 nacque il CIRCOLO DI CULTURA OMOSESSUALE “MARIO MIELI”. Bruno Di Donato, infaticabile attivista del FUORI ne fu il primo Presidente. E Marco Bisceglia, l’ispiratore di Arcigay, il primo Vice presidente. Io ne fui il primo segretario, e l’anno successivo venni eletto Presidente, incarico rinnovato fino al 1990.
Eravamo impegnati nel fermento della programmazione culturale per abbattere i pregiudizi che ostacolavano i nostri diritti, quando fummo costretti a prendere coscienza che l’Aids, quella strana novità che arrivava da oltreoceano, non era una parola astratta che non sapevamo neanche pronunciare, ma una malattia reale che aveva già mietuto molte vittime tra la comunità omosessuale americana. Inizialmente fu il panico, lo smarrimento, la paura, soprattutto per la carenza di informazioni e di punti di riferimento. Fummo costretti a organizzarci per fare fronte a un bisogno di informazione ancora molto vaga e poco rassicurante. La società omofoba e bigotta coniò il binomio omosessuale=malato di Aids. Eravamo visti come moderni untori del morbo gay, del castigo di Dio, come ebbe a esprimersi il cardinale di Genova, Giuseppe Siri. Una immensa, triste, solitudine sociale. Contrapponemmo la nostra attenzione alla salute, all’approccio moralistico delle istituzioni, che forse in cuor loro speravano che l’Aids facesse sparire i froci dalla faccia della terra. Il ministro Donat Cattin tuonò: “L’Aids lo prende chi se lo va a cercare!”, istituzionalizzando così la condanna, la colpevolizzazione e lo stigma sociale verso le persone con hit, accentuandone l’isolamento, la solitudine, l’esclusione, la sofferenza. Per questo mi sento di raccomandare il rispetto delle persone sieropositive che ancora oggi sono oggetto di stigma sociale. Le posizioni bigotte e moralistiche offendono i nostri morti, il nostro impegno, la nostra storia. A Roma collaborammo con le Istituzioni sanitarie, contrapponendo la nostra attenzione alla salute all’approccio moralistico delle Istituzioni, che forse in cuor loro speravano che l’Aids facesse sparire tutti i froci dalla faccia della terra. L’Istituto superiore di Sanità per conto dell’OMS ci chiese di collaborare per un’indagine su un campione di 50 persone da sottoporre a dei test. Ci sentimmo cavie, ci sentimmo fragili, ci sentimmo umiliati, ma capimmo l’importanza di questa collaborazione e senza esitazione decidemmo di sostenere la ricerca contro questa malattia. E così partì la ricerca diretta dall’ospedale Lazzaro Spallanzani attraverso due giovani medici ricercatori, il dott. Beppe Ippolito e il dott. Gianni Rezza, oggi luminari nel campo epidemiologico. Non era ancora il tempo del kit ELISA, quindi erano necessari, oltre il prelievo di sangue, anche un’offerta di urina e di sperma. Non avevamo sedi adeguate come quelle di oggi ma sottoscala di partiti, così in pratica ridendo come pazzi ci siamo fatti delle grandi seghe per donare, come fossimo delle mucche, la nostra dose di sperma fresco di giornata. Alla fine la nostra collaborazione divenne un servizio per la comunità. La prima coorte di 50 persone si allargò ben presto a 80 e poi diventarono centinaia. A tutti era garantito dal Circolo il completo anonimato. Informammo con un dépliant su tutte le pratiche a rischio, chiamandole con il loro nome corrente perché la gente capisse, e devo dire che quella fu un’operazione di grande coraggio. Il nostro volantino fu pubblicato per intero sul Corriere della Sera, suscitando consensi e polemiche, riportati su due intere pagine del giornale.
Intanto il Circolo Mario Mieli nel frattempo era diventato un importante punto di riferimento per la comunità gay romana. Siamo stati proprio bravi e così siamo diventati Centro di Sorveglianza dell’Osservatorio Epidemiologico regionale, diretto dal dott. Carlo Peruccie, grazie al quale fu aperto il Centro Aids presso l’ospedale san Giovanni – Addolorata, con la collaborazione del nostro Circolo. Dalla sede provvisoria di Piazza Vittorio finalmente occupammo uno spazio in via Ostiense, tra Mangiafuoco e l’Agesci. Ricordo ancora quel pomeriggio quando scaricammo le poche cose tra la curiosità e la diffidenza dei vicini. Stampammo tanto materiale informativo, ma le strutture ricreative non furono collaborative. E non potevamo certo andare nei luoghi di incontro a offrire il nostro dépliant, spiegare il corretto uso del preservativo, mentre il nostro potenziale interlocutore era intento a soddisfare altre voglie! E così per poter incontrare direttamente la popolazione gay, cominciammo a gestire una serata al Grigio Notte a via dei Fienaroli a Trastevere. Iniziativa che funzionò egregiamente per l’informazione e dopo la indimenticabile festa al Mattatoio, chiamata Muccassassina con riferimento alla grafica molto dark che rappresentava delle mucche con la falce che erano tornate per vendicarsi di essere state mattate, si trasferì al Castello, vicino al Vaticano, dove prima c’era un cinema porno, il Mercury. Ma intanto era nata Muccassassina, che col suo grande successo, che continua ancora oggi, ci aiutò a fare informazione, a distribuire preservativi e a offrire realmente un luogo di aggregazione e soprattutto di informazione alla comunità gay romana.
Pur con pochi mezzi e con una organizzazione improvvisata ma non inadeguata, con passione, fantasia e coraggio, e un forte senso di responsabilità, credo di poter affermare che la nostra risposta si possa definire eroica. E merita considerazione e rispetto.