Per non binarismo, non-binary o “enby”, si intendono tutte quelle identità di genere che non si ritrovano all’interno del cosiddetto “binarismo di genere” che classifica gli esseri umani in maschio, femmina. Parliamo quindi di un vasto spettro di espressioni individuali, come ad esempio non appartenere a nessun genere (agender), a più di un genere (bigender, multi-gender, pangender), un’oscillazione tra diversi generi (genderfluid), l’identificazione con un genere “altro” o “neutro” (genderqueer, gender variant, two-spirits) o una parziale identificazione con il genere maschile o femminile (demiboy, demigirl), etc.
L’affermazione della fluidità del genere ci restituisce non un solo modo di essere non-binary (e no, non vi dobbiamo nessuna androginia) ma una pluralità di identità e di modi per esprimere il proprio genere.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un sensibile aumento di persone che si identificano come non binarie o al di fuori del binarismo di genere ma abbiamo vari esempi storici e mitologici in tempi molto più lontani, come ad esempio gli eunuchi, i femminielli napoletani, hijra in India o two-spirits nell’America del nord; questɜ ultimɜ rappresentano una variante interessante, in quanto riconosciutɜ socialmente con un ruolo spesso cerimoniale e talvolta sacralizzatɜ come dono divino. Non pochi anni fa fece scandalo negli Stati Uniti una rilettura dell’Antico Testamento che individuava il Dio ebraico-cristiano come una figura agender o al di sopra del genere.
Nelle società occidentali contemporanee siamo abituatɜ a ragionare in termini binari ma è bene ricordare che quest’impostazione mentale, culturale e anche legale è molto recente: è solo nel corso del XVIII secolo che inizia ad affermarsi un irrigidimento del ruolo della donna impostato sulla passività e sull’idealizzazione della maternità mentre quello maschile diventava un genere “attivo e forte”. L’affermazione di un rigido binarismo nei ruoli di genere è una novità squisitamente settecentesca e non una diretta emanazione di una presunta “realtà biologica” che pur ci restituisce di continuo combinazioni atipiche di geni, genitali, livelli ormonali, etc; una novità portata avanti negli ultimi due secoli da una politica di controllo dei corpi da parte del sistema Stato-nazione, da politiche eugenetiche di miglioramento della razza, di natalità e sterilizzazione sfociate anche, purtroppo, nei grandi orrori del Novecento.
Il rifiuto della visione dicotomica del genere ci accomuna sotto l’ombrello Trans*, anche se non tutte le persone non-binary si definisce anche trans. Le persone non binarie possono sperimentare o meno differenti gradi di incongruenza o disforia di genere ed è importante sottolineare la distinzione che esiste tra la disforia fisica e disforia sociale. La prima riguarda una sensazione di disagio che si prova con il proprio corpo o solo con alcune parti di essa mentre la seconda ha a che fare l’espressione di genere e il ruolo in cui la persona vuole essere riconosciuta e percepita dal resto della società; si può provare disforia fisica su caratteri sessuali primari e/o su quelli secondari come il seno, la voce, la crescita dei peli, etc. ma si può anche provare disforia sociale senza provare disagio con il proprio corpo.
È qui che però si crea uno dei punti di rottura interni: la comunità T* continua a spaccarsi sulla medicalizzazione, elemento di affermazione di una cosiddetta “normatività trans”: insomma, se non hai intenzione di intraprendere un percorso di terapia ormonale o una serie di operazioni chirurgiche, non sei “abbastanza trans” e arrivederci. Dal punto di vista sanitario non tutte le persone non binary vogliono “transitare”: ad esempio, moltɜ vorrebbero la terapia ormonale in“microdosing”, altrɜ vorrebbero solo la “top surgery” o nessuna operazione, mentre una delle battaglie che si sta consumando a livello mondiale è quella della “X”, una possibilità terza del genere sui documenti.
La questione della disforia sociale ci porta al problema del cosiddetto privilegio del cis-passing. Cos’è il cis-passing se non l’obiettivo della transizione?
Però, senza una critica transfemminista del privilegio, diventa quella approvazione silenziosa da parte del mondo cis-eteronormato ottenuta al costo dell’adeguamento dell’espressione di genere e della sua fluidità. Il non binarismo è quindi anche una critica e una sfida al sistema patriarcale e cis-eteronormato, ai ruoli di genere e al sistema binario in cui il mondo trans* e la comunità LGBTQIA+ sono ancora immersi e che ripropongono quotidianamente; una sfida ad un sistema economico e politico che si fonda sulla divisione dei ruoli di genere, dall’educazione al mondo della cura e del lavoro, passando per la marginalizzazione di chiunque rappresenti una sfida al modello binario.
Non è casuale che si alzino poi cori di indignazione contro l’uso della shwa e contro i pronomi neutri all’interno della lingua italiana, quasi una schizofrenica reazione che parte dal classificare i nostri bisogni come capricci e finisce con tanto di petizioni da parte di personaggi famosi, intellettuali o presunti tali.
Eppure, ricordiamolo, il deadnaming e il misgendering sono microviolenze quotidiane che possono pesare molto sulla salute mentale delle persone, così come la discriminazione medico-sanitaria le allontana da medici e controlli e così via. Non parliamo di opinioni, dell’essere contrari o a favore di un asterisco o di una “e rovesciata”: da una parte c’è l’esistenza, i bisogni e il dolore di una fetta della popolazione, dall’altra l’invisibilizzazione.
In fondo in Italia abbiamo ancora bisogno di un riconoscimento legale della nostra esistenza. La legge 164/82 regola una “transizione completa” (che, ahimé, non esiste) con delle tappe ben definite: relazione psichiatrica-terapia ormonale-interventi chirurgici (tra cui la sterilizzazione)-rettifica dei documenti. Rispetto a quarant’anni fa oggi è una legge che ci sta molto stretta e non possiamo andare avanti appellandoci alle singole decisioni di singolɜ giudicɜ come negli ultimi anni. Oltre a non prendere in considerazione l’esistenza delle realtà non binarie, porta avanti un’idea deleteria di normazione delle persone trans* da parte di una società che può accettarci solo se passiamo da da un binario all’altro, se ricadiamo negli stereotipi di genere e ci comportiamo come una persona cis, punto e basta.
Se stai nel mezzo dai fastidio, sei un freak, attiri l’attenzione, metti in cattiva luce le persone trans*.
Per questo abbiamo bisogno di una legge che riconosca l’esistenza, l’autodeterminazione e le volontà delle identità non binarie. Abbiamo bisogno di una legge che depatologizzi il percorso, che ci permetta di avere accesso alla TOS con un consenso informato e che la parte psicologica e psichiatrica sia uno strumento che lo Stato offre a disposizione, senza obbligare. Abbiamo bisogno di una legge che preveda il microdosing e un percorso più a misura di persona, che preveda una terza opzione sui documenti e che permetta la rettifica senza dover essere sotto TOS e senza sottoporsi a operazioni chirurgiche obbligatorie.
Abbiamo bisogno di non essere più invisibilizzatɜ, di avere una giusta rappresentanza, di mettere a critica il binario uomo-donna ma anche quello cisgender-transgender, di mettere in discussione un sistema culturale, sociale, politico ed economico in chiave queer e transfemminista, un sistema che ha fin troppo paura di accettare la fluidità del genere, di scardinare quel binarismo su cui si fonda il suo potere.
[DIGITAL ART: Simone Pieri – IG: @simoneatestaccio e @simone_from_mars]