
L’identità italoamericana non è una semplice somma di passaporti e bisnonni con i baffi. È uno sfaccettato bricolage culturale, un patchwork costruito nel tempo da generazioni di migranti e loro discendenti. Come suggerisce uno studio pubblicato su Diasporas, quella degli italoamericani è un’identità frutto della “rinegoziazione dell’identità ‘originale’ dei migranti per ottenere pieno riconoscimento”, con un risultato biculturale che mescola la dolce vita con il fast life.
La comunità italoamericana a New York non si struttura come una classica piramide sociale, con milionari in cima e lavoratori in fondo. No: qui parliamo di una piramide di percezioni, simboli e miti — una sorta di monumento pop, scolpito a colpi di stereotipo e nostalgia.
In cima troviamo politici, artisti, imprenditori e studenti dal nome Giovanni o John, che magari parlano sì e no cinque parole d’italiano, ma hanno una visione aggiornata (e anche chic) delle tendenze culturali e politiche del Paese dei loro avi. Da qui le linee di confine si fanno sfumate, ma per semplificare divideremo in due categorie.
Al centro si muovono gli italoamericani “normali”: quelli per cui l’Italia è soprattutto un ricordo vago custodito nei racconti della nonna e nel piatto di pasta della domenica. L’italianità qui è più un accessorio che un vessillo, da sfoggiare con moderazione.
Alla base della piramide troviamo invece gli italoamericani ortodossi. Per loro, l’Italia è un blocco di marmo scolpito intorno al 1910, venerato con zelo quasi religioso. Sono i paladini del podcast, i maestri del video su TikTok, dove ti spiegano “come è davvero” essere italiani; e spesso le risposte servono più a rinforzare i loro stessi stereotipi che a informare gli altri.
La lingua? Un ibrido affascinante di dialetto arcaico e americano, dove le parole vengono smussate e reinventate: mozzarell, prosciutt, gabagool. Per loro, l’identità italiana si fonda esclusivamente su famiglia e cibo, e l’Italia “vera” è il modello culturale dei villaggi dei bisnonni, luoghi dove non c’era né istruzione né benessere. Ma del resto, è la storia universale della diaspora.
Il cortocircuito LGBTQ+ (e la politica che non ti aspetti)
Purtroppo non sono interessati alla vita quotidiana nelle metropoli italiane, né sono interessati alla cultura intellettuale che da Pasolini a Ferrante, da Gramsci a Calvino, ha modellato un’Italia profondamente europea e internazionale per vocazione. La loro Italia è un presepe in loop, senza città, senza università, senza artisti, senza le mille contraddizioni di un Paese reale.
Per moltissimi di loro, l’Italia resta un’icona immutabile: cattolica, patriarcale, tradizionalista. L’idea di famiglie omogenitoriali? Attivisti LGBTQ+ in Parlamento? Pride coloratissimi e lotte per i diritti?… Semplicemente inconcepibile.
Va comunque detto: a New York non esiste un vero movimento queer italoamericano strutturato. C’è dispersione, frammentazione. La tradizione comunitaria italoamericana si è progressivamente intrecciata con una politica sempre più conservatrice, tramandata come una ricetta di famiglia, di generazione in generazione.
Alle ultime elezioni a New York, i Repubblicani hanno ottenuto il 44% contro il 56% dei Democratici; ma è a Staten Island — roccaforte italoamericana — che hanno stravinto con il 63,9%.
Nel mondo degli italoamericani ortodossi, identità queer e identità etnica non dialogano: non si incontrano, non si rafforzano. Le voci gay italoamericane restano marginali, se non invisibili, nella già marginale letteratura italoamericana. E, la visibilità LGBTQ+ tra gli italoamericani in campo artistico è stata a lungo limitata per motivi culturali (forte influenza cattolica, pressione della comunità), anche se negli ultimi anni c’è stata una maggiore apertura. Tradizione vuole che i cugini “ammerikani” restino perlopiù maschilisti, sessisti e omofobi — con un amore smodato (ai limiti del cosplay) per l’estetica Sopranos e per le “real” donne di Mob Wives. Banalizzando e normalizzando l’orrore prodotto dalla cultura mafiosa. Una volontà di rappresentarsi all’interno di un cliché frutto della cultura colonialista anglo-americana che ci descrive “mediterranei” prepotenti e chiassosi, come se l’intera penisola fosse un unico vicolo napoletano del 1850. Escludendo l’incredibile diversità genetica e culturale che caratterizza l’Italia intera, unica in Europa. Dai biondi normanni del sud ai bruni spagnoli del nord, frutto di secoli di invasioni, scambi, imperi e dominazioni, iniziando da quello Romano.
Ma poi, c’è anche qualcosa di tenero.
Dietro tutto questo kitsch, c’è qualcosa di quasi poetico. Un attaccamento ossessivo che nasconde un bisogno universale: quello di radici, appartenenza, storie da tramandare. Certo, il risultato è spesso una caricatura: un’Italia immaginaria, profumata di salsa e rosari, a chilometri — e decenni — dalla realtà odierna, caotica, multietnica, in perenne trasformazione. Eppure, c’è anche sincerità in questo sforzo: il desiderio di costruire un racconto identitario, difenderlo con orgoglio, e non lasciarlo annegare nel presente liquido. Forse un giorno scopriranno un’Italia più ampia, più fluida, più viva e contemporanea. Un’Italia che accoglie, reinventa, sperimenta. O forse no. Forse, per loro, va bene così: un’Italia sartoriale, tagliata e cucita sui sogni familiari — a migliaia di chilometri e cent’anni di distanza. Dopotutto, chi siamo noi per togliergli la favola?
In chiusura vi consiglio tre libri, tre storie bellissime, alla base della cultura italoamericana:
1- Cristo nel cemento (Pietro Di Donato).
2- Chiedi alla polvere (John Fante).
3- Umbertina (Helen Barolini).
…e una selezione di musica italiana raffinata e urbana, da ascoltare chiacchierando e sorseggiando Spritz!
**** EN_VERSION:
Italian Americans in New York: The Kitsch (and Tender) Side of the Identity Pyramid and the LGBTQ+ Dilemma
Italian American identity isn’t just a matter of passports and mustachioed great-grandfathers. It’s a layered cultural bricolage — a patchwork woven over time by generations of migrants and their descendants. As suggested in a study published in Diasporas, Italian American identity is the result of a “renegotiation of the migrants’ ‘original’ identity in order to gain full recognition,” creating a bicultural blend of la dolce vita and the fast life.
The Italian American community in New York doesn’t follow the typical social pyramid model — millionaires at the top, working class at the bottom. No: here we’re talking about a pyramid of perceptions, symbols, and myths — a kind of pop monument carved out of nostalgia and stereotype.
At the top, you’ll find politicians, artists, entrepreneurs, and students named Giovanni or John — maybe they speak five words of Italian at best, but they have a polished and current understanding of Italy’s cultural and political trends. From here, the lines get blurrier, but for the sake of clarity, let’s divide things into two broad categories. In the middle, we have the “ordinary” Italian Americans — for whom Italy is mostly a vague memory wrapped in grandma’s stories and Sunday pasta. Italian identity, for them, is more of an accessory than a banner — worn sparingly, and often fashionably.
At the base of the pyramid are the Orthodox Italian Americans. For them, Italy is a marble block carved in 1910, revered with near-religious fervor. These are the podcast prophets, the TikTok sages who explain to you “what being Italian really means.” But more often than not, their answers reinforce their own stereotypes rather than enlighten others.
Their language? A fascinating hybrid of archaic dialect and American English, where words are softened and reinvented: mozzarell, prosciutt, gabagool. For them, Italian identity is built solely around family and food, and the “real” Italy is the cultural model of their ancestors’ villages — places that, back then, had little access to education or prosperity. But then again, that’s the universal story of diaspora.
The LGBTQ+ Short Circuit (and the Politics You Don’t Expect)
Unfortunately, they’re not interested in everyday life in Italian cities, nor are they drawn to the intellectual culture that—from Pasolini to Ferrante, from Gramsci to Calvino—has shaped an Italy that is deeply European and international by vocation. Their Italy is a nativity scene on repeat—no cities, no universities, no artists, none of the countless contradictions of a real country. For many of them, Italy remains a fixed icon: Catholic, patriarchal, traditionalist. The idea of same-sex families? LGBTQ+ activists in Parliament? Vibrant Pride parades and battles for civil rights? …Simply inconceivable.
That said, it must be acknowledged: in New York, there is no truly structured Italian American queer movement. What exists is dispersed and fragmented. The Italian American tradition of community has increasingly intertwined with a conservative political stance, passed down like a family recipe from one generation to the next.
In the latest elections in New York, the Republicans received 44% compared to the Democrats’ 56%; but it was in Staten Island — an Italian-American stronghold — that they triumphed, winning with 63.9%.
In the world of orthodox Italian Americans, queer identity and ethnic identity do not intersect: they neither meet nor reinforce each other. Gay Italian American voices remain marginal—if not outright invisible—within the already marginalized sphere of Italian American literature. LGBTQ+ visibility among Italian Americans in the arts has long been limited due to cultural reasons (strong Catholic influence, community pressure), although in recent years there has been greater openness.
Traditionally, “Ammerikani” cousins are seen as mostly macho, sexist, and homophobic—with an over-the-top (almost cosplay-level) obsession with The Sopranos aesthetic and the “real” women of Mob Wives. This trivializes and normalizes the horror perpetuated by mafia culture.
It’s a deliberate choice to represent themselves through a cliché shaped by Anglo-American colonialist culture, which paints us as loud and overbearing “Mediterraneans,” as if the entire Italian peninsula were just one noisy Neapolitan alley circa 1850—ignoring the extraordinary genetic and cultural diversity that defines Italy, unmatched anywhere else in Europe. From the blond Normans of the South to the dark-haired “Spaniards” of the North, the peninsula is a mosaic shaped by centuries of invasions, trade, empires, and dominations, beginning with the Roman Empire.
And Yet… There’s Something Tender About It All
Beneath all the kitsch, there’s something tender. Almost poetic. An obsessive attachment that hides a universal need: roots, belonging, stories to pass on.
Of course, the result is often a caricature — an imaginary Italy, scented with sauce and rosaries, miles and decades removed from today’s chaotic, multiethnic, ever-evolving reality. And yet, there’s also sincerity in this effort: the desire to build an identity narrative, to defend it proudly, and to keep it afloat in a liquid present. Maybe one day they’ll discover a broader, more fluid, more vibrant and contemporary Italy. An Italy that welcomes, reinvents, experiments. Or maybe not. Maybe for them, that’s fine: a made-to-measure Italy, stitched together from family dreams — thousands of miles and a hundred years away. After all, who are we to take their fairytale away?
To wrap up, I recommend three books—three beautiful stories that form the foundation of Italian American culture:
1 Christ in Concrete – Pietro Di Donato
2 Ask the Dust – John Fante
3 Umbertina – Helen Barolini
…and a selection of refined, urban Italian music, perfect for listening to while chatting and sipping a Spritz!








































































































