“I ragazzi che si amano si baciano in piedi contro le porte della notte” scrive Prévert. E qui sembra di vederli manifestarsi all’improvviso, i due ragazzi, mentre si baciano sulla soglia di un portone, di notte.
“Come nei giorni migliori” di Diego Pleuteri è arrivato al Teatro India di Roma (ma potrete vederlo anche al Parenti di Milano) e ha letteralmente spopolato, un tutto esaurito che ha accompagnato l’intero arco delle rappresentazioni.
La risposta di questo successo è sotto gli occhi di tutto il pubblico: un testo che funziona e parla con un linguaggio attuale di situazioni reali, senza troppa filosofia sull’esistenza; una regia dinamica che non si bea delle proprie idee, ma le sviluppa, le accoglie e le abbandona in un batter d’occhio e sfrutta al meglio l’essenzialità tecnica dell’allestimento, potenziandone al massimo la portata emotiva; una coppia di giovani attori di talento, dinamici e intensi, complici e coinvolgenti, felici di essere lì a fare il proprio mestiere, per parlare a noi, che li osserviamo con curiosità.
Si ride, si riflette, ci si commuove di fronte alle fasi di un brandello di vita in comune di due persone – A e B: niente nomi, potrebbero essere chiunque – che cercano un’identità come singoli e come coppia.
Una riflessione – leggera eppure perfettamente a fuoco – della realtà di oggi, delle difficoltà dell’esistenza, del ribaltamento di certezze senza alcuna soluzione possibile. Le soluzioni arrivano, vivendo, sembra suggerirci Pleuteri, che riesce a rendere comicamente i primi approcci dei due, l’imbarazzo delle convivenze temporanee, i sentimenti contrastanti di amore e adattamento all’altro. E poi persino le insoddisfazioni – il sesso su tutte – e l’intramontabile contrasto fra amore e desiderio, aspettative e realtà, che ci accomuna tutti allo stesso modo.
Quello che più colpisce è la “normalità” (mi si perdoni il termine vetusto e abusato, ma tant’è!) con cui viene presentato tutto questo all’interno di una coppia omosessuale. Non c’è focus su quest’ultimo argomento, né imbarazzo familiare o con gli amici, né contrasto con il lavoro o la società: situazioni che hanno caratterizzato una parte importante della drammaturgia di matrice LGBT+. L’asse di certi interrogativi si è spostato e il merito, probabilmente, è della nuova generazione di artisti che partecipa a questo progetto. Sembrerebbe non esserci nulla su cui riflettere o ragionare per il fatto stesso di essere o voler essere una coppia di due persone dello stesso sesso. Quello che vediamo scorrere davanti ai nostri occhi è uno spaccato di vita di due persone che si rapportano ad altri o a loro stessi, affrontando di volta in volta le incomprensioni o i desideri, le fragilità o le assurdità dell’esistenza. La caratteristica dell’omosessualità è una delle variabili, non la variabile principale. Si nota, per esempio, dal tema della genitorialità, evocata sì, ma non drammaticamente centrale.
Curioso come, a ben vedere, si passi per situazioni drammaticamente già viste – sesso, famiglia, lavoro, tradimento, morte – con una lente nuova. In alcuni momenti di rabbia a me è venuto in mente “Chi ha paura di Virginia Woolf?”, ma forse è solo un riferimento superficiale. Eppure Albee è stato, per molti versi, un detonatore di esigenze nuove della società, proprio come sembra esserlo Pleuteri in questo testo.
Il merito è del linguaggio, certamente, ma anche della rapidità della scrittura drammatica, la fluidità del passaggio di tempo e luogo, la sincronicità di alcuni momenti, e l’ironia estrema in ogni campo, persino in quelli più tragici. Ma anche dell’acume nell’individuare i nervi scoperti di una crisi diffusa attorno al tema della coppia.
Su questo materiale Leonardo Lidi costruisce uno spettacolo essenziale, ma in espansione continua, come una sorta di Big Bang. Spazio aperto, vuoto, privi di oggetti, se non i più essenziali. È il corpo dell’attore ad essere spazio. Le luci ne definiscono i contorni: bianche e fredde per la gran parte del tempo, come un tavolo chirurgico su cui sezionare i sentimenti e le emozioni. Poi il buio, il rosso, il viola. Senza nessuna correlazione simbolica, solo la manifestazione di uno stato interiore, mutevole e indefinibile: iconico è il momento della separazione in cui uno canta un’improbabile versione dell’Elefante e la farfalla e l’altro balla, altrove, ma sempre solo!
Lidi mette i due interpreti in connessione profonda, senza mettere l’accento su una fisicità perversa o univoca. I due si desiderano, si toccano, ma solo per pochi istanti. Per tutto il resto del tempo il contatto è manifestazione del pensiero, dell’emozione (ancora questo termine, sì!), che i due esprimono dal profondo, con un realismo che mette in luce il rossore, il sudore, il fiato corto…
Montagne russe di rarefatta intensità che seguono il contenuto della storia: incontro, relazione, scelte, errori, fuga, ritorno e complicazioni, epilogo. Senza mai coincidere in maniera scontata con il fulcro della scena, ma giocando di scarto, creando la sorpresa, che dal testo passa all’azione e viceversa. Alla fina sarà un epilogo o siamo fermi solo alla prima stagione?!
La performance di Alessandro Bandini e Alfonso De Vreese è eccellente sotto ogni punto di vista. Con una grammatica espressiva che viaggia fra gli estremi di commedia e dramma, i due giovani interpreti hanno saputo trovare per ogni momento il giusto colore, la perfetta intonazione, il movimento impercettibile che riuscisse tradurre la sottile complessità della loro relazione. Bocca, occhi, mani, corpo, voce strumenti di una duttilità ginnica a servizio di un messaggio del pensiero, è il corpo prima della parola a tradurne la complessità, probabilmente perché il corpo non sa mentire. Le parole fuggono rapide, a volte rapidissime, proprio come nella vita, senza sosta, mutando costantemente funzione e lettura, specchio di loro stesse.
Dallo sfinimento del gioco all’immobilità del dolore, dal sorriso al pianto, dalla passione alla repulsione Bandini e De Vreese si innestano uno sull’altro con le voci e i corpi dando vita a una dinamica che tiene l’attenzione fino all’ultimo istante.
Il merito è della capacità del progetto nel complesso di “parlare” la stessa lingua emotiva di chi ascolta e un po’ anche di Jessica Fletcher (no spoiler, please!)
***
Come nei giorni migliori
di Diego Pleuteri, regia Leonardo Lidi, con Alessandro Bandini, Alfonso De Vreese, scene e luci Nicolas Bovey, costumi Aurora Damanti, foto Luigi De Palma, produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale.