“Fuorilegge” non è soltanto lo slogan scelto per l’edizione 2025 del Roma Pride, ma è una vera e propria diagnosi politica, un urlo di rivolta contro un intero sistema che sta cercando di spingere la comunità LGBTQIA+ fuori dalla legalità riconosciuta, dalla piena cittadinanza, dal diritto a esistere senza paura.
Il Roma Pride quest’anno si dichiara fuorilegge non perché infranga le norme civili – d’altro canto, come ovvio, una manifestazione così grande non potrebbe tenersi senza il sostegno e il supporto delle istituzioni – ma perché è la legge stessa, e soprattutto chi la gestisce e la brandisce come un’arma, ad aver infranto la promessa democratica di uguaglianza, protezione e libertà per tutt3 che sono alla base della nostra Costituzione e di uno Stato di diritto.
Lo scenario italiano riferito a questo aspetto è infatti allarmante: l’edizione 2025 della Rainbow Map di ILGA-Europe ha posizionato l’Italia al 35° posto su 49 paesi europei e dell’Asia Centrale, con un punteggio del 24%. Questo dato ci avvicina più alla Russia di Putin e all’Ungheria di Orbán che non alla Spagna o alla Germania, con tutto ciò che ne consegue, e costituisce il negativo di una fotografia di un’Italia ormai allo sbando sul fronte dei diritti LGBTQIA+.
Dai crimini d’odio, permessi e incentivati dall’assenza di una legge che li riconosca e li punisca, alla negazione del riconoscimento delle famiglie omogenitoriali, fino alla totale mancanza di tutele per le persone transgender, intersex e non binarie: ormai il governo ha reso ogni ambito della vita civile terreno di esclusione, discriminazione e marginalizzazione, usando peraltro nella propria narrazione un linguaggio politico sempre più aggressivo che ha come conseguenza quella di alimentare lo stigma e l’ostilità.
E quando si vive in un Paese pervaso da questo clima di odio, far parte della comunità LGBTQIA+ significa essere fuorilegge, cioè esclus3, ignorat3 e non protett3 dalla legge. Ciò accade in tutti gli ambiti, come hanno tristemente testimoniato le aggressioni, sempre più frequenti e violente, ai danni di persone LGBTQIA+, permesse e quasi agevolate dal senso di impunità che trasmettono le istituzioni. L’episodio più recente, che non va considerato come isolato ma sistematico, ha visto l’aggressione di tre donne trans da parte di un branco di dieci uomini: un atto disumano, feroce e bestiale, l’ennesimo di una lunga serie, di cui il governo è almeno in parte responsabile con il suo linguaggio carico di odio e con l’invisibilizzazione di un allarme omolesbobitransfobico ormai impossibile da ignorare.
È fin troppo semplice additare la violenza quando ha il volto del branco che aggredisce in strada, dunque lavarsene le mani e deresponsabilizzarsi; un’altra mano è colpevole, quella che scrive leggi escludenti, incita all’odio, brandisce il manganello e firma decreti repressivi: è la mano dello Stato.
D’altro canto – è solo un’ipotesi al momento, ma neanche delle più remote e improbabili – il Decreto Sicurezza, voluto e promosso dal governo Meloni, rischia di diventare il grimaldello per reprimere ogni forma di dissenso e manifestazione “non conforme”. Nei prossimi anni potremmo davvero assistere al paradosso per cui centinaia di migliaia di persone che sfilano per i diritti di una comunità e di una minoranza saranno ostacolate da forze di polizia alle quali tutto viene permesso e i cui atti di violenza giustificati come “necessari”. È lo stesso meccanismo che abbiamo visto posto in atto in Ungheria, dove il Pride è stato vietato dal governo di Orban e al quale daremo supporto e solidarietà con la nostra presenza. Il rischio concreto è che la strada intrapresa dai due Paesi si avvicini sempre più, fino a intersecarsi e quindi diventare un’unica linea retta della paura, dell’odio e della violenza di Stato.
Esistono organismi sovranazionali come l’Unione Europea che dovrebbero vigilare sul rispetto dei diritti e difendere i loro stessi principi e valori fondanti. Nonostante le dichiarazioni di sostegno ampiamente sbandierate, la Commissione europea non ha invece ancora impugnato la legge ungherese che vieta il Pride. Anzi, l’invito rivolto ai Commissari europei a non partecipare alla marcia, per “non provocare Orbán”, può essere considerato un gesto che legittima la censura e l’intimidazione, sintomo di pavidità e forse anche di un disinteresse nei confronti della nostra comunità.
Il governo Meloni, dal canto suo, è rimasto come sempre in silenzio. Ma chi si sarebbe aspettato diversamente, vista la comunanza di idee e di principi? Non una parola per condannare il divieto, non un gesto di solidarietà verso chi in Ungheria – come in Italia – continua a marciare nonostante tutto. È un silenzio che pesa come una scelta: quella di stare dalla parte sbagliata della storia, schierandosi su un campo di battaglia che è quello delle nostre vite.
A rafforzare questa deriva, che non è che una goccia di quell’ondata nera che si è riversata sia sul Nuovo che sul Vecchio continente, si moltiplicano decisioni istituzionali che sanciscono la discriminazione: la recente sentenza della Corte di Cassazione, che ribadisce come “genitori” debba sostituire “padre” e “madre” sulle carte d’identità elettroniche, è una vittoria simbolica, ma mostra anche quanto ancora ci sia da combattere contro chi vorrebbe ridurre le famiglie a modelli imposti e precostituiti. Anche sul fronte delle adozioni si registra una contraddizione intollerabile: se la Corte Costituzionale ha aperto all’adozione internazionale per persone single, dall’altra parte continua a escludere le coppie omosessuali unite civilmente. In poche parole lo Stato italiano concede diritti solo se non si è visibilmente queer.
Non è un caso che l’attacco più violento e trasversale sia stato sferrato proprio contro la comunità transgender e non binaria: abbiamo visto come negli Stati Uniti di Trump, che ha iniziato il proprio mandato con dei provvedimenti contro le persone trans, la T e la Q siano state rimosse dal monumento nazionale di Stonewall, proprio lì dove la rivoluzione queer è iniziata. Un gesto gravissimo, che intende cancellare la nostra storia e riscriverla, depotenziandola e negando che l3 prime a lanciare quei leggendari e mitologici tacchi siano state persone trans e queer. E se in Ungheria e Russia, tra i tanti problemi e uno scenario tragico in cui si rischia la vita stessa, è praticamente impossibile avviare un percorso di affermazione di genere, in Italia la soluzione non è di molto migliore, dato che non esiste alcuna legge che garantisca il diritto all’identità, alla salute, alla visibilità delle persone trans.
Rivendicare il diritto di manifestare, di scendere in piazza, di mostrare il proprio corpo e far sentire la propria voce non è un vezzo o un gesto di esibizionismo, come ama dire chi non si vuole macchiare di omolesbotransfobia: è un gesto di sopravvivenza politica, un atto di ribellione e di resistenza. Il Roma Pride 2025 è dunque “fuorilegge” perché rifiuta di conformarsi a un sistema che opprime la comunità LGBTQIA+. D’altro canto fuorilegge furono i moti di Stonewall, lo furono Sylvia Rivera e Marsha P. Johnson, come lo furono tutte le persone queer che hanno lottato nel corso dei decenni per continuare a esistere. Celebrare il Pride significa non dimenticare che la nostra storia è fatta di disobbedienza, che la libertà non è mai stata concessa, non è mai calata dall’altro ma è sempre stata conquistata e strappata a duro prezzo. Ed è per questo che ogni tentativo di censura, ogni aggressione, ogni decreto repressivo non spegne la lotta. Anzi, la moltiplica, la rinforza e la alimenta.
Allora il 14 giugno Roma sarà attraversata da migliaia di corpi visibili, resistenti, politicizzati. Corpi che sfidano il patriarcato, l’omolesbobitransfobia il razzismo, l’autoritarismo, gli Stati che usano la guerra come strumento diplomatico. Corpi che non si piegano e che portano avanti un’eredità collettiva, la nostra, fatta di coraggio, dolore, gioia, rivoluzione e orgoglio.
Il Roma Pride, al quale parteciperà la madrina Rose Villain e che conterà anche la presenza di tanti carri, è fuorilegge perché la legge, oggi, non riconosce la nostra esistenza. Ma continueremo a esistere comunque, come abbiamo sempre fatto. E grideremo ancora più forte fino a che sarà impossibile ignorare la nostra voce.