Jason Jones si trovava davanti alla Hall of Justice di Port of Spain, nel cuore di Trinidad, lo stesso edificio dove, nel 2018, aveva festeggiato una delle più importanti vittorie per i diritti LGBT+ nei Caraibi. Quella giornata era sembrata l’inizio di una nuova era: la legge che criminalizzava i rapporti tra persone dello stesso sesso era stata dichiarata incostituzionale. Ma il 25 marzo 2025, la Corte d’Appello ha ribaltato quella decisione. In un solo colpo, Trinidad e Tobago è tornata indietro nel tempo – nonostante le proteste, le sentenze, e le promesse di giustizia.
Nel frattempo, dall’altra parte dell’Atlantico, il Mali ha approvato un nuovo codice penale che criminalizza esplicitamente l’omosessualità, contribuendo a far salire a 66 il numero di paesi dove essere LGBT+ è un reato. Questa cifra era scesa costantemente a livello globale dopo il diciannovesimo secolo. Ma la tendenza positiva ha subìto un brusco arresto quest’anno.
Questi passi indietro non avvengono nel vuoto. Dietro molte delle nuove leggi anti-LGBT+ c’è un flusso costante di fondi, pressioni politiche e alleanze religiose che partono da think tank e organizzazioni ultra-conservatrici statunitensi, russe ed europee. Secondo la campagna “L’exporting dell’odio” promossa da All Out, oltre 280 milioni di dollari sono stati investiti nell’ultimo decennio per sostenere iniziative contro i diritti LGBT+, sessuali e riproduttivi in tutto il mondo. Family Watch International, ad esempio, è accusata d’esser coinvolta in azioni di lobby per promuovere leggi omofobe in Africa e nei Caraibi, lavorando direttamente con parlamentari e funzionari pubblici.
L’influenza di queste reti non si limita a paesi al di fuori dell’Europa. Anche all’interno dell’Unione Europea si registrano segnali preoccupanti. In Ungheria, il Parlamento ha approvato una nuova legge che vieta i pride. La legge prevede multe fino a 500 euro per i partecipanti e fino a un anno di carcere per gli organizzatori, oltre all’uso del riconoscimento facciale per monitorare i manifestanti – in aperta violazione del diritto europeo e della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE. Firma la petizione per chiedere un’azione immediata.
In tutta Europa si sta diffondendo un inquietante modello repressivo ispirato alle leggi anti-LGBT+ promosse dalla Russia. Dalla Bulgaria alla Romania, dalla Georgia fino all’Italia, dove una Commissione parlamentare ha chiesto di vietare l’insegnamento della cosiddetta “teoria gender” nelle scuole, il linguaggio e le strategie sono sorprendentemente simili. Si tratta di un attacco coordinato alla libertà di espressione, all’educazione inclusiva e alla visibilità delle persone LGBT+, mascherato da “protezione dei minori”. Questa ondata legislativa sta prendendo piede anche in paesi dell’Europa occidentale, come l’Italia. Il rischio è evidente: l’importazione del modello russo in versione europea rischia di normalizzare la censura, lo stigma e la discriminazione istituzionale, svuotando dall’interno i valori fondamentali su cui si fonda l’Unione Europea.
In Colombia, la morte di Sara Millerey, una donna trans brutalmente assassinata e gettata in un fiume, ha scosso l’opinione pubblica ma non ha provocato reazioni istituzionali adeguate. La sua uccisione si inserisce in una lunga serie di omicidi di persone LGBT+, in particolare trans, in un clima di crescente indifferenza e impunità. Solo nel 2025, 24 persone LGBT+ sono state assassinate in Colombia, incluso il ricercatore italiano Alessandro Coatti, portando a oltre 200 i casi registrati negli ultimi sei anni.
Nel continente africano, la situazione è altrettanto critica. In Camerun, Senegal, Ciad, Togo e Burkina Faso, le persone LGBT+ vivono sotto costante minaccia di arresto, violenze, esclusione sociale e persecuzione. In alcuni casi, come in Ciad e Togo, la pena per atti omosessuali può arrivare fino a cinque anni di carcere. In Costa d’Avorio, pur non essendo criminalizzati gli atti omosessuali, la discriminazione e le aggressioni sono sistematiche e spesso impunite. La morte di Jennifer NTA, una giovane donna trans brutalmente assassinata ad Abidjan, è il simbolo di una violenza sempre più normalizzata e trascurata. Le testimonianze raccolte da All Out mostrano una realtà fatta di paure quotidiane, rifiuto familiare, impossibilità di accesso al lavoro, mancanza di protezione, ma anche di resilienza.
Molte di queste storie restano poco conosciute a livello internazionale anche a causa delle barriere linguistiche: l’Africa francofona occidentale è spesso esclusa dai radar dell’informazione globale anglofona. Eppure, proprio da lì provengono alcune delle testimonianze più strazianti. Olivier dal Camerun racconta: “Sono stato abusato da adolescente fino ad ora e sono stato rifiutato dalla mia famiglia al punto che volevano che morissi“. Brice dalla Costa d’Avorio confessa: “Le nostre paure più grandi sono: essere picchiati, attaccati o addirittura linciati; subire l’esclusione sociale; perdere il lavoro; essere ripudiati dalle nostre famiglie“.
In gioco non ci sono solo i diritti delle persone LGBT+, ma la sopravvivenza stessa della democrazia liberale. I tentativi di censura, repressione e criminalizzazione non sono episodi isolati, ma tasselli di una strategia più ampia che mira a smantellare le libertà fondamentali e il pluralismo. Dobbiamo unirci – movimenti LGBT+, attivisti per i diritti umani, difensori della democrazia – per proteggere entrambi. Ritengo inoltre prioritario, oggi più che mai, ridefinire l’agenda internazionale del movimento LGBT+, mettendo al centro la battaglia per la depenalizzazione universale dell’omosessualità.
Difendere la libertà individuale, il pluralismo, il diritto a esistere: questo è il cuore di ogni democrazia liberale degna di questo nome. E se oggi essere LGBT+ è ancora un crimine in 66 paesi, allora la nostra lotta non è finita.
Un Pride vietato in Ungheria, una legge repressiva in Mali, un corpo spezzato in un fiume colombiano, una sentenza crudele nei Caraibi: sono tutte facce della stessa strategia. Una strategia che mira a cancellare le nostre vite, la nostra presenza, la nostra voce. Ma finché ci sarà chi resiste, chi denuncia, chi firma una petizione, chi scende in piazza, chi racconta queste storie, il buio non vincerà. La libertà non si esporta con le bombe, ma si difende con la solidarietà. E oggi più che mai, abbiamo bisogno l’uno dell’altro per non diventare invisibili.